“Scappano tutti dalla violenza in Camerun ma quanto vorrebbero tornare là, dove hanno lasciato tutto ma non sanno cosa troveranno ancora”.
L’ho scritto sul taccuino che mi ha accompagnato durante la mia visita ai progetti MSF in Nigeria, in Cross River State. Il “diario di bordo” sul quale ho annotato impressioni, ricordi, sensazioni di quella prima esperienza sul terreno dopo qualche anno trascorso in ufficio.
Sono Chiara e mi occupo di web e social media nell’ufficio di MSF Italia. Poco tempo fa ho avuto l’opportunità di salire su un aereo e trascorrere qualche settimana in uno dei nostri progetti in Nigeria per documentare le attività e raccogliere storie e testimonianze di operatori e pazienti.
Se si cerca sulla mappa, il Cross River State è una macchia verde nella Nigeria del sud al confine con il Camerun. Da oltre un anno ormai è teatro di un esodo molto poco conosciuto a livello internazionale. Decine di migliaia di persone stanno fuggendo dal Camerun per trovare rifugio nel vicino stato nigeriano dopo che violenza e insicurezza caratterizzano le regioni nord e sud occidentali del vicino Camerun.
I numeri che conosciamo parlano di quasi 35.000 rifugiati in Nigeria e circa 435.000 sfollati interni al Camerun. Impossibile conoscere il numero di chi, in questo tentativo di fuga, ha perso la vita.
Come fratelli e sorelle
Quando i primi camerunensi hanno attraversato il confine per ritrovarsi nei piccoli villaggi nigeriani, non c’erano organizzazioni internazionali presenti a dare assistenza. L’accoglienza e l’aiuto di queste persone è stato interamente gestito, in una prima fase, dalla popolazione locale. E così, piccoli villaggi nei quali le condizioni di vita erano già precarie, hanno visto raddoppiare il proprio numero di abitanti e le proprie sfide.
Da questa situazione, potenzialmente difficile, sono nate bellissime storie di accoglienza.
Sono nostri fratelli e sorelle e ora sono in difficoltà” mi ha detto Augustine, un abitante del villaggio di Amana, quando mi ha raccontato il perché stesse accogliendo, da più di un anno, alcuni rifugiati in casa sua. Mi sono accorta solo dopo averci parlato di quanto le sue parole fossero semplici ma allo stesso tempo spiazzanti; di quanto stia diventando straordinario quello che dovrebbe essere normale: aiutare chi è in difficoltà.
All’intervento delle prime organizzazioni, la gestione dell’accoglienza dei rifugiati è in parte cambiata. Sono stati costruiti dei campi nei quali oggi vive la maggior parte della popolazione. Ne ho visitato uno, quello di Adagom.
Il campo rifugiati di Adagom
La mia prima volta in un campo rifugiati, dopo averne visti decine in foto e video. Mi stupisce tutto: la terra rossa sulla quale spiccano le piccole tende bianche, l’apparente normalità di vite quotidiane che sono state stravolte, le decine di sorrisi e “benvenuta” che mi vengono rivolte. Mi hanno accolto nella loro nuova casa, chissà per quanto tempo lo sarà.
Mi bastano pochi minuti per rendermi conto di quanto MSF sia ben voluta da tutti. Da maggio 2018 stiamo infatti intervenendo in Cross River State per rispondere a questa crisi. I nostri team hanno lavorato nei villaggi per costruire latrine e pozzi e stanno continuando a dare assistenza medica alla popolazione rifugiata e locale.
Molte delle persone che conosco nel campo di Adagom sono proprio pazienti di MSF. Incontro Gmoltee e il piccolo Sema che mi accolgono fuori dalla loro tenda dove Gmoltee sta provando a costruire una sorta di veranda per farla diventare un punto di ritrovo con gli altri rifugiati.
Incontro Lydia nella piccolissima tenda in cui vive con altre 8 persone, tutta la sua famiglia. Continua a ringraziarmi e a ringraziare MSF per averla aiutata e averle permesso di essere visitata in ospedale senza spese. Ha 40 anni e non un’idea chiara del perché si trovi lì. Mi sono resa conto che in molti, soprattutto le donne, non conoscono cosa stia succedendo in Camerun, sanno solo che sono dovute scappare per proteggere la propria vita e quella dei propri cari.
Riuscite a immaginare di perdere tutto e non sapere il perché?
Incontro poi Justine, in quella che potremmo definire la sua cucina fuori dalla tenda dove vive. Sta preparando da mangiare per lei e i suoi tre figli. È diabetica e non potendo mangiare il riso che viene distribuito, si arrangia con qualche verdura. Mentre sono seduta accanto a lei mi racconta la sua storia, la fuga, i giorni nella foresta prima di arrivare nei villaggi nigeriani e poi in quel campo. “Quando starò meglio e tutto questo sarà finito, tornerò in Camerun, a casa”. È determinata.
Dopo una lunga chiacchierata le faccio una domanda apparentemente banale che invece si rivelerà, per me, un cazzotto nello stomaco. Le chiedo l’età e mi dice di avere 27 anni, un anno meno di me. Solo in quel momento realizzo chi ho davanti: una mia coetanea, una ragazza segnata profondamente dalla vita e messa ancora una volta alla prova. Ci ho messo un po’ ad accettarlo, forse non l’ho ancora fatto.
Tutto quello che rimane
Il suo viso e quello delle altre persone con cui ho avuto la fortuna di parlare mi rimarranno impressi a lungo, insieme alle loro storie e alla loro resilienza. Mi rimarrà impressa la rigogliosa natura del posto, il verde della foresta e la terra rossa d’Africa che a volte riescono ad addolcire le immagini del reale. Mi rimarranno impressi nella mente gli sforzi quotidiani dei colleghi di MSF per costruire un pozzo e mettere su una clinica in pochissimo tempo. Mi rimarrà addosso la certezza dell’incredibile lavoro che MSF sta facendo lì e ovunque ce ne sia bisogno.
Mi rimane il senso di responsabilità di raccontare tutto quello che ho visto, far conoscere le storie, dare spazio alla voce delle persone. Per MSF e per tutti i ragazzi che lavorano lì ogni giorno. Per i nigeriani che mi hanno insegnato ancora una volta cosa significa accoglienza. Per Justine, Gmoltee, Josephine, Fidelis, Maria e tutti i rifugiati che stanno affrontando questa crisi.
A loro il mio augurio che possano trovare di nuovo un posto da chiamare casa.