Mentre la pandemia di Covid-19 riempie i notiziari di tutto il mondo, le crisi umanitarie meno visibili continuano a peggiorare nell’ombra.
Nei villaggi della regione orientale del Burkina Faso, si verificano regolarmente omicidi, rapimenti e saccheggi. È questa una delle aree più colpite dal conflitto tra le forze di sicurezza nazionali e i vari gruppi armati, che sta causando la fuga di un gran numero di persone dalle proprie case.
Quasi invisibili, le comunità vulnerabili affrontano enormi difficoltà. Tra violenze, povertà ed epidemie ricorrenti, decine di migliaia di persone hanno accesso limitato ai servizi di base, cure mediche comprese, vivono nella paura di attacchi violenti e hanno carenza di cibo e acqua.
I prossimi mesi saranno ancora più duri: la stagione delle piogge e il periodo di carestia tra la semina e il raccolto a partire da giugno, generano solitamente un picco di grave malnutrizione e malaria, una delle principali cause di morte nel paese. Nella zona non vi sono casi confermati di Covid-19 che, tuttavia, aggiunge un ulteriore livello di complessità alla già grande difficoltà nel portare aiuti in un ambiente così insicuro.
Dal mese di maggio dello scorso anno, forniamo cure mediche gratuite, acqua e generi di prima necessità alle popolazioni del Burkina Faso orientale. Ma occorre fare di più. L’assistenza umanitaria deve essere urgentemente potenziata per prevenire morti e sofferenze.
Bisogni umanitari e cicatrici psicologiche
Negli ultimi due mesi, una nuova ondata di attacchi in villaggi remoti nella regione orientale del Burkina Faso, ha sradicato migliaia di famiglie che sono fuggite nelle città di Gayeri e Fada.
La nostra équipe ha ascoltato testimonianze strazianti di sopravvissuti che hanno subìto o assistito a violenze estreme, che hanno lasciato tutto ciò che possedevano e camminato giorni interi per raggiungere un rifugio sicuro. Molti hanno perso i loro cari negli attacchi. Per alcuni, le cicatrici psicologiche sono profonde. Da gennaio a maggio, le nostre équipe hanno curato oltre 5.300 pazienti con problemi di salute mentale.
Preoccupa molto la mancanza di un’adeguata sistemazione: molte famiglie sfollate vivono in tende fatte di paglia o teli di plastica. Ancora più allarmante è la carenza di acqua potabile e cibo.
Un sistema sanitario al limite a causa di conflitti e carenze
Dopo quattro anni di violenze, il sistema sanitario nel Burkina Faso orientale è diventato molto fragile. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, oltre 30 strutture mediche nella zona sono chiuse o malfunzionanti. I farmaci e le attrezzature scarseggiano, spesso a causa di saccheggi o perché l’insicurezza impedisce il rifornimento delle scorte, ma anche per mancanza di personale medico.
La violenza estrema ha costretto molti medici e infermieri a trasferirsi in aree urbane più sicure. In questo ambiente instabile, recarsi presso strutture mediche specializzate può essere particolarmente complicato. Nell’area le ambulanze sono state attaccate, nonostante sia proibito dal diritto internazionale umanitario. La paura è diffusa. Alcune persone sono riluttanti a rivolgersi ai servizi sanitari per paura di essere associate a una parte del conflitto e di diventare bersagli.
La violenza ostacola la fornitura di aiuti
L’insicurezza nel Burkina Faso orientale ostacola gli aiuti umanitari e pone enormi difficoltà nel raggiungere alcune comunità, soprattutto le più remote. Il 16 aprile, ad esempio, abbiamo dovuto annullare una visita al villaggio di Tawalbougou, dove si nascondono migliaia di famiglie di sfollati, dopo che uomini armati hanno sparato contro una delle nostre équipe mediche. In seguito, siamo riusciti a riprendere le attività nella zona e ad assistere le comunità interessate, ma non sempre accade.
In alcune aree è difficile raccogliere dati sul numero degli sfollati o avere un quadro chiaro del tasso di mortalità e della situazione sanitaria. La nostra capacità di raggiungere le persone più vulnerabili è spesso limitata per via dell’instabilità e dall’espansione di gruppi armati.
Di conseguenza, migliaia di persone rimangono isolate e prive dei servizi di base, comprese le cure mediche.
L’impatto collaterale del virus Covid-19
Il Burkina Faso ha segnalato oltre 800 casi di Covid-19 da quando l’epidemia è stata confermata, per la prima volta nel paese, a marzo. Sebbene finora la regione orientale sia stata risparmiata, il rischio è presente e, purtroppo, la sua diffusione sta avendo un effetto collaterale negativo sul nostro lavoro.
Abbiamo interrotto tutti i servizi medici non essenziali nelle strutture sanitarie e abbiamo adattato altre attività. Il sostegno psicologico, ad esempio, ora si effettua da remoto: al telefono e attraverso programmi radiofonici e opuscoli di sensibilizzazione.
Il virus Covid-19, insieme alla violenza, rende inoltre sempre più impegnative le campagne di vaccinazione. Per citare un esempio, a seguito di un recente focolaio di morbillo, abbiamo deciso di immunizzare i bambini nel distretto di Pama.
La prima difficoltà è stata garantire la sicurezza delle nostre équipe, poiché in passato nella zona si sono verificati incidenti violenti contro operatori sanitari e ambulanze. La seconda difficoltà è stata di tipo strategico: dato che gli assembramenti non sono più consentiti a causa del Covid-19, abbiamo dovuto riadattare la nostra abituale procedura andando porta a porta per vaccinare i bambini, invece di farli venire nei centri sanitari.
Dovevamo anche garantire che tutte le équipe di vaccinazione avessero i dispositivi di protezione individuale per ridurre al minimo il rischio di contagio. Questo nuovo approccio ha richiesto tempo e organizzazione, come gestire due focolai contemporaneamente.
Infine, poiché alcune famiglie avevano inizialmente manifestato resistenza al vaccino contro il morbillo a causa delle voci secondo le quali potesse avere qualcosa a che fare con il Covid-19, i nostri operatori umanitari si sono dovuti impegnare al massimo per chiarire la questione. Nonostante tutti questi ostacoli, siamo riusciti a raggiungere l’obiettivo e a vaccinare più di 40.000 bambini contro il morbillo.
Anche l’accesso ai dispositivi di protezione individuale è stato problematico per il personale, riducendo la nostra capacità nel fornire assistenza. Ci sono voluti più di due mesi per ricevere dall’estero la fornitura di tute, protezioni per il viso e attrezzature simili. Al contempo, le limitazioni ai viaggi internazionali hanno impedito l’arrivo di personale più esperto, dai medici specialisti, alle ostetriche, agli addetti alla logistica.
Ciò che preoccupa molto è la condizione precaria in cui le comunità sfollate e ospitanti sono costrette a vivere. I servizi sanitari sono ridotti e quelli di terapia intensiva e rianimazione per i pazienti gravemente malati, sono estremamente limitati.
Questo è il motivo per cui è fondamentale continuare a rafforzare le misure di prevenzione a livello comunitario, anche se non è semplice. Come si può rispettare il ‘distanziamento sociale’ in una tenda sovraffollata? Come è possibile lavarsi spesso le mani quando non è sufficiente neanche l’acqua da bere?
La pandemia non deve oscurare altre necessità
La pandemia di Covid-19 è un’emergenza nell’emergenza, una delle tante priorità che non deve distogliere da altri interventi medici salvavita.
È essenziale tenerla sotto controllo e prevenire eventuali effetti a catena, ma ciò non deve avvenire a spese di altre situazioni umanitarie critiche. Nella regione orientale del Burkina Faso, l’epidemia non è la preoccupazione principale delle persone: per migliaia di sfollati e comunità di accoglienza è già abbastanza difficile semplicemente sopravvivere.
Hanno paura che la stagione delle piogge possa distruggere i loro rifugi improvvisati; temono la fame e la sete, non un virus che non ha ancora raggiunto la zona. La pandemia deve rimanere una priorità, ma non deve oscurare altre necessità importanti, né deviare fondi, personale e aiuti destinati al miglioramento delle condizioni di vita dei più vulnerabili.