Lavoro a Beirut come medico di Medici Senza Frontiere da appena tre settimane.
In Libano ci sono circa un milione e mezzo di rifugiati, prevalentemente palestinesi e siriani. La maggior parte è arrivata qui dall’inizio della guerra in Siria, una delle tante crisi umanitarie, e la missione di MSF offre assistenza sanitaria ai rifugiati che vivono nei campi profughi a sud di Beirut.
La clinica si trova nel campo di Shatila. Il mio primo impatto è stato dirompente. Un ammasso di costruzioni precarie, le une sulle altre, con improbabili piani rialzati aggiunti nel tempo. Poche finestre, qualche straccio a schermare la vista da fuori. Bambini ovunque che corrono a piedi scalzi in un reticolo di stradine e vicoli impenetrabili. C’è un groviglio inimmaginabile di cavi elettrici che corre molto basso, ovunque, si arrampica sulle facciate e raggiunge ogni angolo visibile. Immagino che portino la corrente in tutto il campo.
Man mano che il campo è cresciuto, i cavi sono aumentati e adesso la situazione è completamente fuori controllo. Ogni anno ci sono circa 100 morti fulminati, per quei cavi elettrici, specialmente bambini. In particolare, accade durante la stagione delle piogge, quando il maltempo fa cadere un cavo e la presenza di acqua nelle strade fa il resto.
Una ferita che credevo guarita
Questa mattina la clinica è affollata. Mi guardo intorno e mi rendo conto che i volti delle persone nella sala d’aspetto di Shatila li ho già visti. Li ho visti in Grecia, quando scappando dalla Siria arrivavano ad Atene con i barconi. E affrontavano la rotta balcanica che li avrebbe portati nel cuore dell’Europa (senza sapere, forse, che tipo di accoglienza li attendeva).
Questi volti riaprono una ferita che credevo guarita.”
Ho lavorato tre mesi con Medici Senza Frontiere nel campo profughi di Idomeni, al confine tra la Grecia e la Macedonia (FYROM). Doveva essere un campo di transito, allestito per permettere ai migranti di riposarsi, fare una doccia, mangiare qualcosa di caldo prima di affrontare la tappa successiva di quel cammino lungo e durissimo.
Ero a Idomeni quando, dopo l’attentato di Parigi, le frontiere si sono chiuse all’improvviso, da un giorno all’altro. Nel campo, costruito per contenere 1.500 persone, in pochi giorni se ne contavano più di 6.000. Ed è stato il caos. Gli autobus continuavano ad arrivare, a getto continuo, giorno e notte, portando da Atene centinaia di profughi. Altre centinaia arrivavano a piedi. Ma la frontiera era chiusa. Erano intrappolati lì, al confine. In questa situazione catastrofica è difficile reagire tempestivamente. Abbiamo cominciato a distribuire tende canadesi ma lì dentro, la notte, si moriva di freddo. A Idomeni, a novembre, si andava già sotto lo zero.
Le tende riscaldate venivano lasciate per le donne e i bambini mentre gli uomini passavano la notte intorno ai fuochi, accesi in tutto il campo con la legna portata dai contadini della zona. Nel campo c’erano code interminabili, per usare i bagni, per ricevere un po’ di cibo o per l’assistenza medica. L’ambulatorio di MSF, un piccolo container, era aperto 24 ore su 24. Durante la notte, i nostri mediatori culturali facevano il giro del campo cercando di intercettare persone in difficoltà.
Una notte hanno trovato una famiglia di giovani siriani, babbo, mamma e un bambino di pochi mesi. I genitori erano seduti a terra, stremati, e facevano scudo al bambino per tenerlo al caldo tra loro due. Li abbiamo fatti entrare in ambulatorio. Si sono stesi a terra e si sono addormentati all’istante. I pazienti che entravano dovevano letteralmente saltare i loro corpi stesi. Il giorno dopo siamo riusciti a procurargli una tenda.
Idomeni è il campo della vergogna, della foto del bambino di pochi giorni lavato fuori dalla tenda, in pieno inverno, con una bottiglia di acqua minerale. La foto ha fatto il giro del mondo ma così come quella del piccolo siriano riverso sulla sabbia, non ha fatto la differenza ed è stata dimenticata in fretta.
Centinaia di racconti
In quella missione ho ascoltato centinaia di racconti di chi scappava dalla guerra e aveva perso tutto, anche le persone più care. Ma la cosa più difficile era incontrare i superstiti dei naufragi di quei barconi improvvisati, strapieni, che si rovesciavano durante la traversata. Li ricordo uno a uno, anche se ormai sono passati quasi 5 anni.
Ricordo il nonno siriano che aveva perso la nipotina in acqua. Aveva portato la figlia in ambulatorio. Lei non parlava più, non mangiava. Non voleva camminare e lui non sapeva come fare per portarla al sicuro. Voleva arrivare in Germania dove la famiglia di suo fratello avrebbe potuto aiutarli. Ricordo il ragazzo, non ancora maggiorenne, che scappava con il fratellino più piccolo e che non è riuscito a tenerlo a galla quando il loro barcone si è rovesciato. Ricordo il mediatore culturale con le lacrime agli occhi. Gli sta chiedendo se ha avvertito la sua famiglia, se possiamo aiutarlo, metterlo in contatto con qualcuno. Ma il ragazzino risponde di no, non ha il coraggio di telefonare a casa. Adesso che è rimasto solo, proseguirà il suo viaggio con un gruppo di persone provenienti dalla sua città. Tornare indietro è fuori discussione.
Queste storie sono difficili da raccontare (e da ricordare) perché sono la conseguenza delle politiche migratorie della civilissima Europa. Tutti compresi, anche il mio paese. Mentre faccio queste riflessioni, distratta nella sala d’aspetto, mi si avvicina un signore anziano e mi dice qualcosa in arabo. Ha appena ritirato le sue medicine nella farmacia, sono gratuite come tutti i servizi della clinica. Mi sta ringraziando per l’aiuto. Mi augura salute e felicità e se ne va.