Nei miei anni di esperienza con Medici Senza Frontiere di ferite vere e proprie ne ho viste poche, perché al mio arrivo sono già state curate, ricucite e incerottate.
Io non faccio parte del personale sanitario e in prima linea sarei solo d’intralcio. Mi occupo di comunicazione e il mio compito è raccogliere storie.
Storie che parlano di ben altre ferite, invisibili ad occhio nudo ma spesso aperte e doloranti: quelle causate dall’incertezza cronica, paura costante, stenti e condizioni di vita intollerabili, dall’esaurirsi delle forze e della speranza; o quelle inguaribili provocate della perdita di una persona cara. Spesso mi sono sentita impotente e inutile di fronte a tanta sofferenza, frustrata di non poter condividere ognuna di quelle storie.
Ho ancora davanti agli occhi il viso di quell’uomo la cui storia è molto simile a tante altre, quasi banale in quel mondo di violenza, distruzione, privazioni e di vite interrotte. Mi accolse a casa sua nella pianura del Nineve, nel nord dell’Iraq, nei pressi delle postazioni dell’ISIS.
Era una casa semplice, resa cupa dal cielo plumbeo dell’inverno. Attraversammo un cortile fangoso, ci togliemmo le scarpe all’uscio e fummo invitati ad accomodarci sul pavimento di una grande stanza dalle pareti spoglie. Fece entrare anche le telecamere di una rete australiana che non pubblicò mai nulla della lunga intervista che ci concesse. Era ansioso di parlare e di condividere con il resto del mondo il peso che portava dentro.
Era stato il maestro della scuola elementare del villaggio, in cui si era stabilito anni prima per insegnare. I figli, ormai ragazzi, erano nati lì. Lui era diventato uno del posto, aveva trovato il suo ruolo, rispettabilità e anche un certo agio in quel calderone di curdi, arabi, sunniti, sciiti, cristiani e yazidi che popolano il nord dell’Iraq.
Dopo la notizia dell’arrivo imminente dei feroci combattenti dell’Isis, in molti nel villaggio erano fuggiti con le loro poche cose per raggiungere zone più sicure. Lui, invece, rimase lì, a subire le prepotenze dei gruppi armati islamici. Questi ultimi, scalzati dalle forze curde e dalle bombe della coalizione, non rimasero a lungo ma rimase il sospetto che la comunità liberata avesse simpatizzato per l’Isis. I superstiti, così, erano intrappolati in quei villaggi semidistrutti e mezzi vuoti.
Per strada non girava anima viva, nemmeno le onnipresenti galline. I negozi erano chiusi o demoliti e un silenzio inquietante avvolgeva il villaggio ormai isolato da posti di blocco. Perfino il nulla-osta per recarsi in ospedale per partorire richiedeva lunghe negoziazioni con le autorità curde.
Suo figlio avrebbe voluto frequentare l’università ma ora non poteva più uscire dal villaggio. In una stanza, coperto da un panno, era in bella mostra un computer, anche se naturalmente internet non c’era, né ci sarebbe stato per molto tempo ancora. I risparmi erano finiti e loro vivevano del poco che riuscivano a produrre e a barattare.
Era forte la paura di avere il nemico così vicino, pronto a fare razzie e a spadroneggiare, e il timore di essere sospettati dalle forze curde. Si sentiva tra due fuochi, ostaggio di una guerra che stentava a comprendere ma che aveva travolto tutto e tutti. Viveva nell’impossibilità di fare programmi, in balia degli eventi e nel timore costante di una nuova catastrofe.
Un atto di resistenza
Gli chiesi se fosse contento che avessimo cominciato a offrire cure mediche nella clinica allestita in uno degli edifici ancora in piedi una volta alla settimana. Rispose di sì, ne era molto contento e poi mi chiese: “Il mondo là fuori è al corrente di cosa ci sta succedendo? Voglio ringraziarvi non solo per le medicine e le cure mediche che ci portate, ma soprattutto perché la vostra presenza ci restituisce calore, un lume di speranza che il mondo non ci ha dimenticati e che questa tragedia un giorno finirà”.
Ascoltando quell’uomo così dignitoso e resiliente ho capito che le ferite dell’animo si cominciano a curare con la vicinanza.
Ascoltare le storie delle persone, accogliere i loro bisogni, mantenere la clinica aperta nonostante i pericoli e le difficoltà logistiche e con la consapevolezza che il nostro intervento sarà solo una piccola goccia nell’oceano: ecco, quel gesto, quella presenza assume un enorme valore morale. Diventa un atto di resistenza e di prossimità che mira a ristabilire un po’ di umanità.