Niente può preparare i sensi all’impatto contro questo vortice di colori, suoni, odori. L’aria densa e appiccicosa, il sole che scotta, la pelle bruciata, la terra rossa che entra nelle narici e fin dentro ai calzini, sotto le unghie.
Gli alberi verdi fluorescenti. I riverberi argentei che disegnano ponti sull’acqua mentre una palla infuocata si tuffa nel fiume. Sono a Bangassou, in Repubblica Centrafricana.
La potenza che emana questa gente è impressionante, tutto è vita, nonostante l’orizzonte del futuro arrivi fino a domani. Sotto questa volta celeste, mai mi sono sentita così piccola come ora difronte alle stelle, alla natura, ad ogni singolo essere vivente che fa parte di questo nostro strano mondo del quale sto imparando a conoscerne fragilità e meraviglie.
Sebbene la mia vista non sia sempre panoramica, ma spesso fugace e limitata, il mio cuore è aperto, e la mia piccola grande Africa è un’insegnante paziente che mi ricorda una lezione importante: quando capisci che non c’è niente da ottenere, il mondo intero ti appartiene.
Così, con il tempo ho capito che la vera bellezza, quella che accarezza l’anima, è negli occhi di chi guarda, di chi sa vederla, di chi ce l’ha dentro e riesce ad illuminare il mondo circostante.
Dopo 3 mesi
Il tempo sta volando come una folata di aria fresca che mi accarezza. È denso e profondo come un buco nero che mi attrae a sé e mi fa piantare bene i piedi a terra nel qui e ora. Eppure è anche un tempo elastico, disegna promesse nel cielo a ogni arrivederci e accoglie le novità con entusiasmo. Ha la spensieratezza di un fanciullo e la consapevolezza di chi tempo non ne ha più.
È un tempo che a volte si raggomitola su sé stesso mentre altre scorre libero come la corrente del fiume. È il tempo delle piccole cose. È curativo. È un tempo dall’andatura lenta, che cammina senza fretta di fuggire via perché ha capito di essere prezioso, e che danza al ritmo della natura insegnandomi che ogni cosa ha un suo tempo. È senza pretese. È un tempo che se la sa godere e che si misura in piogge e frutta di stagione. E presto,qui, sarà tempo di mango.
Quarto mese
Oggi qui è morto l’Imam. È morto in cielo, letteralmente.
Poche ore fa ti abbiamo messo su quell’aereo verso la capitale nella speranza di darti delle cure migliori e invece tu forse ti sei sentito di toccare il cielo cosi da vicino che sei volato via. Che strano tutto questo a volte. Questo via vai di pazienti che partono e che, forse, tornano.
Qualche settimana fa ero stata felicissima di rivedere un bimbo tornare e scendere quelle scalette con lo sguardo curioso. Oppure quella mamma cosi giovane col suo fagottino di poche settimane tra le braccia e la gioia negli occhi al posto della paura di quando era partita. Oggi ti avevo messo nella macchina, tu eri stato paziente, eri emozionato, mi hai regalato un sorriso sdentato e hai voluto comunque reggerti sulle tue gambe per salire quei tre scalini fin dentro l’aereo, ti sei seduto e sei volato in cielo per la prima volta, chissà cosa hai pensato guardando fuori dal finestrino.
Dicono che sia successo velocemente poi, con tutto quel cielo intorno ad accoglierti verso quel grande mistero che accomuna tutti.
In un paese dove il 60% dei circa sei milioni di abitanti vive con meno di un dollaro e un quarto al giorno, dove le strutture sanitarie statali sono pressocché inesistenti, mi rendo conto che il nostro ruolo qui sia fondamentale. L’impegno di MSF in luoghi come questi, dimenticati da tutto e tutti, è l’unica speranza per tantissime persone, e gli sguardi dei pazienti me lo ricordano ogni giorno. Specialmente quando sono stanca, trovo la motivazione di andare avanti nei loro occhi pieni di speranze e di paure.
Sono stati in tanti a venire all’aeroporto a salutarti oggi, non c’era mai stata una folla così. Saranno in tanti stanotte a guardare il cielo stellato cercandoti. Buon viaggio.
Fine
È arrivato il momento di salutare questo mio piccolo mondo fatto di niente e di poche persone. Questo niente che condiviso è diventato tanto, moltiplicandosi invece che ridursi. Mi siedo sulla sponda del fiume e ancora una volta mi abbandono ad esso lasciando scorrere le mie emozioni nella corrente. Non è mai facile dire addio. C’è una nostalgia struggente nei gesti che sai di star facendo per l’ultima volta.
Mentre con lo sguardo cerco di cogliere gli ultimi bagliori di luce dorata che cola dalla punta di un pennello invisibile andandosi a posare sul letto del fiume, mi innamoro di nuovo di questo paesaggio che sembra un acquerello ed inizio a sfogliare mentalmente le pagine di questi ultimi mesi. E proprio come avessi appena chiuso la copertina del mio libro di avventure preferito, sento gia la mancanza dei personaggi che hanno reso questa storia indimenticabile.
Mischiarsi ad altre culture vuol dire imparare a sentire attraverso un altro cuore. E un pezzo del mio stavolta lo lascio qui, dove la terra è rossa e il sole brucia. Dove un mio segmento di vita si è intrecciato ad altri diventando altro, mentre il mondo che conoscevo inevitabilmente mi si scollava di dosso. Mi alzo e mi incammino alla macchina.
Guardando indietro verso la sponda del fiume noto le stelle che brillano alte nel cielo e l’acqua scorrere lenta come seta liquida. La magia di questo luogo é stata sempre quella di farmi sentire nel posto giusto. Ma ora é tempo di andare, di seguire il flusso della vita, di essere fiume e non roccia. Scatto un’ultima foto, questa volta in analogico, e il negativo della fotografia mi rimane impresso nel cuore, per sempre.