Gaia Giletta

Gaia Giletta

Infermiera MSF

Potrete mai perdonarci?

Gaia Giletta

Gaia Giletta

Infermiera MSF
Potrete mai perdonarci?

Tra poche ore sarò di nuovo a Torino, ma per uscire da Gaza ce ne sono volute 31.

Siamo tornati indietro una volta, cambiato direzione non so quante, siamo stati fermi in macchina tra le macerie, i suoni delle esplosioni e i veicoli militari che correvano sulla strada polverosa a est di Rafah. Poi, finalmente, abbiamo attraversato a piedi il muro di cemento alto 9 metri e il metal detector ci ha sputati dall’altra parte.

Nell’albergo di Amman, mentre faccio colazione, tre bambini corrono tra i tavoli con in mano dei muffin al cioccolato. Li guardo lanciare via i vestiti e saltare in piscina e il boccone mi si ferma in gola al pensiero dei loro coetanei che ho lasciato dall’altra parte del muro, dove le mattine non hanno il profumo dei pancake, ma l’odore acre della morte e la puzza della spazzatura che si accumula tra le tende.

A Gaza non ci si sveglia con il sapore dolce di un croissant, a Gaza i bambini si svegliano con in bocca la polvere dei bombardamenti e il gusto metallico del sangue.

Non riesco a togliermi dalla mente quei bambini che ho visto fare la fila per ore, sotto il sole, per un gallone di acqua. Che ho visto arrivare negli ospedali o cliniche di Medici Senza Frontiere mutilati, insanguinati, terrorizzati. A quelli avvolti nei lenzuoli bianchi, allineati nei cortili ogni mattina, ancora e ancora, in un incubo senza fine da cui a Gaza non ci si sveglia mai.

Le loro urla mi riempiono le orecchie e sovrastano le risate e i tuffi dei fratellini davanti a me.

Penso a Mahmud, che ha perso la mamma, 6 fratelli e una gamba. Veniva ogni mattina nella clinica di MSF per la medicazione e stringeva fortissimo i denti per non piangere, dando fiero il cinque al fisioterapista ad ogni piccolo progresso.

Penso ad Ameera, che è l’unica sopravvissuta della sua famiglia e non parla più: la potenza dell’esplosione l’ha scaraventata nella casa di fianco, dove l’hanno ritrovata ore dopo, sotto le macerie.

Penso ai bimbi della nostra clinica di Al Mawasi, che disegnavano droni e carri armati e alla domanda: cosa ti fa più paura? Rispondevano: le bombe.

Io credo che l’unica risposta accettabile da un bambino a questa domanda dovrebbe essere “dei mostri sotto il letto”. Ma, come dice Niccolò Ammaniti, “i mostri non esistono. Devi avere paura degli uomini, non dei mostri”. E i bambini di Gaza lo sanno bene.

Mi chiedo che adulti saranno un domani, i piccoli sopravvissuti a questa guerra. Mi chiedo se in questa generazione di orfani, amputati, traumatizzati, abbandonati dal mondo il desiderio di pace sarà più forte del dolore, se potranno mai perdonarci per quello che stiamo lasciando che accada, per aver tolto loro tutto – anche l’infanzia.

Spero che potranno conservare la sensibilità commovente che il popolo palestinese mi ha dimostrato in queste settimane, la cura, l’accoglienza e il calore dei loro sguardi, la generosità dei piccoli gesti.

Spero che continueranno a guardare nella direzione di Ahmed, 10 anni, che un giorno mi ha detto: mi piace nuotare. Il mare è l’unico posto in cui guardo l’orizzonte e non c’è un muro.

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