Federica Iezzi

Federica Iezzi

Chirurgo MSF

Se una goccia si trasforma in perla

Federica Iezzi

Federica Iezzi

Chirurgo MSF
Se una goccia si trasforma in perla

Al “Bashair Teaching Hospital”, nel sud di Khartoum, avevamo a disposizione l’area del Pronto Soccorso e tre sale operatorie, una completamente attrezzata, le altre due per piccoli interventi.

Nelle prime settimane potevamo operare solo fino alle 5 del pomeriggio perché dopo veniva tagliata l’elettricità e non avevamo carburante sufficiente per tenere accesi i generatori.

Il flusso di pazienti era continuo. Almeno 6 pazienti su 10 erano bambini. Riuscivamo a operare fino a 30 persone al giorno. Con noi lavoravano i medici locali: non ricevevano più uno stipendio, ma ogni mattina si presentavano puntuali all’ospedale, per non abbandonare la loro gente, dicevano. 

Il bombardamento 

L’ospedale si trovava quasi sulla linea del fronte: sentivamo le esplosioni giorno e notte, dal cancello del Pronto Soccorso si scorgevano distintamente le colonne di fumo alzarsi al cielo.

Un giorno un ordigno è esploso dalla nostra parte del cancello: in quel momento c’erano almeno 50 pazienti, in attesa di essere visitati. Le strutture sanitarie hanno cessato di essere dei luoghi sicuri durante i conflitti: ad Aleppo, in Siria, i nostri ospedali erano nascosti dentro dei sotterranei. 

“Non ci fanno più lavorare”

All’inizio, l’ospedale si trovava in un’area sotto il controllo del governo, poi sono arrivati quelli delle Rapid Support Forces. Per settimane non abbiamo ricevuto alcun rifornimento, né di materiale sanitario, né di carburante.

Abbiamo utilizzato più volte le stesse garze e gli stessi fili di sutura; usavamo aghi troppo grandi per operazioni di chirurgia vascolare; non c’erano anestetici, né farmaci per il dolore, non c’erano antibiotici. Tutto era fermo a Port Sudan, in attesa di un’autorizzazione governativa che non arrivava mai. Si trattava di una strategia deliberata: volevano evitare che in una zona controllata dalle RSF venissero curati coloro che combattevano contro il governo.

A un certo punto hanno anche bloccato i visti del nostro personale internazionale: nel team di MSF eravamo appena in 6 e siamo stati costretti a prolungare la nostra permanenza in ospedale: dopo 5, 6 settimane di lavoro, con quei ritmi, anche la persona più forte e motivata inizia a essere stanca e a perdere di lucidità.  

La preghiera

C’è stato un bombardamento in uno dei campi profughi e i feriti si sono riversati in massa nell’ospedale. Un uomo è entrato nel Pronto Soccorso reggendo tra le braccia un bambino: avrà avuto cinque anni. L’uomo lo ha adagiato su un letto accanto a un altro bambino della stessa età.

I nostri sguardi si sono incrociati. Un silenzio assoluto ha avvolto la stanza. L’uomo ha sollevato lentamente le braccia al cielo e ha iniziato una preghiera per il figlio perduto. L’altro bambino si è issato a fatica, ha innalzato pure lui le braccia e si è unito alla preghiera. Non dimenticherò mai quella scena. 

La paura 

Stavamo operando un bambino e il rumore delle bombe si faceva sempre più vicino.

Avevamo quasi finito. Ho detto ai miei colleghi che avrei potuto continuare da sola, che potevano uscire, li avrei raggiunti presto. Non si è mosso nessuno. Quando siamo usciti, abbiamo visto i crateri degli ordigni a pochi metri dall’edificio. Ho lavorato in zone di conflitto in Siria, Yemen, Somalia, sono più di 10 anni ormai. Spesso mi chiedono se ho paura. Ho paura sempre.

La paura serve a capire quando bisogna fermarsi e quando si può andare oltre. Durante il bombardamento in quell’ospedale di Khartoum non ho avuto paura di morire, ma di non essere più all’improvviso quella che sono, di perdere un braccio e di non poter più essere un medico: quella è stata la paura più grande.   

Una goccia

Quando torno a casa, mi sveglio con nelle orecchie i rumori della guerra e nelle narici gli odori: gli odori in un Paese in guerra sono molto diversi, misto di sabbia e di polvere da sparo, di resti umani, odore di morte, te lo senti addosso per tanto tempo.

Riesco a superare tutto ciò solo ripartendo per un’altra guerra, dove sento di essere quella che sono, di essere utile. A volte mi sento una goccia microscopica in un oceano di distruzione. Ho ricostruito arti di persone che la guerra ha fatto a pezzi un attimo dopo.

Però ti racconto una storia, non del Sudan, ma dello Yemen. Arriva nel nostro ospedale una bambina di 5 anni, ferita a una gamba.

All’entrata della tenda che è la nostra sala operatoria, mi prende il braccio e mi dice: “Io non voglio vivere senza la mia gamba”. Ma non c’è niente da fare, per salvarle la vita dobbiamo amputare. Per giorni la bambina non parla, rifiuta ogni cosa, è arrabbiata, continua a toccare nel punto in cui la gamba non c’è più. Che diavolo di vita avevo dato a quella bambina?

Che se ne faceva del mio codice deontologico di cardiochirurgo pediatrico che mi aveva imposto di salvarla? Durante il resto della mia permanenza in Yemen, la bambina fa progressi grandissimi: le viene impiantata una protesi, fa fisioterapia, fasciature strette, tanto dolore e tanta pena, anche per la famiglia.

L’ultimo giorno della mia permanenza in Yemen vado a salutare i pazienti nell’ospedale. La bambina mi corre incontro, reggendosi sulla sua gamba nuova, e si aggrappa alla mia abaya: “Grazie, dottore, per avermi salvato la vita”. Sono una goccia in un mare di distruzione. A volte, però, la goccia può trasformarsi in una perla preziosa.

Questa testimonianza è parte della newsletter “Per Principio”, sui temi dell’azione umanitaria