Sono passati cinque anni da quando i Rohingya sono scappati in Bangladesh per fuggire dall’ultima e più grande ondata di violenza mirata contro di loro in Myanmar. Quasi 1 milione di persone vive ancora negli stessi rifugi sovraffollati e “temporanei” in bambù, dipende dagli aiuti e ha poche prospettive per il futuro. I Rohingya sono ancora apolidi e non sono riconosciuti ufficialmente come rifugiati.
I nostri team vedono l’impatto delle condizioni sovraffollate e antigieniche dei campi sulla loro salute fisica e mentale. Riceviamo un numero crescente di pazienti che hanno bisogno di cure per malattie della pelle o trasmesse dall’acqua, malattie croniche come il diabete e l’ipertensione e servizi di assistenza psicologica.
Nei campi profughi di Cox’s Bazar, abbiamo raccolto le testimonianze di alcuni di loro. Hanno rispettivamente 5, 15, 25, 45 e 65 anni, e insieme rappresentano tre generazioni di Rohingya che ogni giorno affrontano le condizioni difficili dei campi.
Desidero la pace
Tayeba Begum è madre di sei figli, tra cui due gemelle di 5 anni. È fuggita dal Myanmar nel 2017 con nient’altro che i vestiti che aveva addosso. Ora, cinque anni dopo, Tayeba racconta come sono costrette a vivere nei campi. Nonostante il desiderio di tornare a casa, dice che è difficile tornare in Myanmar senza sapere se i suoi diritti saranno garantiti.
Le mie due gemelle, Nur Ankis e Nur Bahar, avevano solo sei mesi quando siamo fuggite dalla nostra patria in Myanmar. Quando siamo scappate avevamo con noi solo i vestiti che indossavamo.
Dopo l’inizio delle uccisioni, non potevamo più restare in Myanmar. Dovevamo salvarci. I militari uccidevano brutalmente i Rohingya e bruciavano le loro case. Anche due anni prima della nostra partenza nel 2017, i giovani uomini venivano presi e torturati. All’epoca, mio figlio aveva paura ed è partito per l’India. È ancora lì.
Quando sono fuggita con le mie bambine, abbiamo attraversato giungle e strade fangose sotto la pioggia battente per raggiungere il Bangladesh. Il viaggio è stato difficile, soprattutto con le bambine. Dopo aver raggiunto il confine, la gente si riposava dove poteva, ma non c’era nessun riparo. Ci sedevamo tra i cespugli o sotto gli alberi se pioveva forte, aspettando e sperando di ricevere assistenza. Mangiavamo tutto quello che riuscivamo a trovare per sopravvivere. Le mie figlie erano diventate deboli e vomitavano ogni volta che cercavo di nutrirle. Hanno sofferto a lungo perché al nostro arrivo era difficile trovare medicine.
Pochi giorni dopo il nostro arrivo [a Cox’s Bazar], sono stati costruiti dei rifugi per noi con stoffe e bambù. Ora viviamo qui nei campi profughi. Le mie gemelle hanno cinque anni. Sono stati cinque anni in cui abbiamo vissuto nell’angoscia. Abbiamo un rifugio, ma oltre a questo non abbiamo molto per i nostri figli. Dipendiamo dall’assistenza alimentare e ci preoccupiamo di cosa dare loro da mangiare e se è sufficiente. Ci preoccupiamo di come vestirli e di come educarli. Non posso procurargli ciò di cui hanno bisogno perché non ho soldi.
A volte mangio meno del dovuto perché in cuor mio vorrei vendere il cibo in più per comprare qualcosa alle mie figlie. È così che viviamo, nutriti a metà. Altrimenti non posso comprare nulla alle mie figlie.
A volte sento mio figlio in India. Mi chiama ogni due o tre mesi. Non ho un cellulare e posso parlare con lui solo quando chiama qualcun altro. Non lo vedo da anni e mi mancano terribilmente lui e la mia casa in Myanmar.
Desidero la pace. Se riusciremo a vivere di nuovo in pace in Myanmar, torneremo. Perché non dovremmo tornare se sarà fatta giustizia e ci sarà data la cittadinanza? Non è forse anche la nostra terra?
Ma come possiamo tornare se i nostri diritti non sono garantiti? Dove vivremo, visto che le nostre case sono state distrutte? Come possiamo tornare se i nostri figli potrebbero essere portati via e uccisi?
Potete tenerci qui o trasferirci in un altro Paese, non rifiuteremo, ma non tornerò in Myanmar senza che sia fatta giustizia”. Tayeba Begum
Anwar, 15 anni, ricorda ancora chiaramente la fuga dal Myanmar cinque anni fa. A casa, era un bravo studente con dei sogni. Ora, è ansioso di sapere come evolverà la sua vita.
Mi chiamo Anwar. Sono uno studente dal Myanmar. Ho 15 anni, quasi 16. Siamo scappati dal nostro quartiere in Myanmar e ora viviamo nel campo profughi di Jamtoli in Bangladesh.
Ricordo il momento in cui sono scappato dal Myanmar con la mia famiglia. Era un pomeriggio, quando l’esercito ha attaccato il nostro quartiere e siamo dovuti scappare in una zona vicina. Quando hanno dato fuoco alle nostre case, siamo dovuti scappare ancora. Noi siamo sopravvissuti, ma molti parenti e vicini di casa sono stati uccisi.
Abbiamo viaggiato a lungo per cercare sicurezza. Ricordo che sono stati quasi 12 giorni di viaggio a piedi, correndo o camminando, prima di raggiungere il Bangladesh. È stato pericoloso: abbiamo percorso strade sconosciute, scalato colline e attraversato persino l’acqua. Abbiamo visto molti cadaveri lungo la strada. Quando siamo arrivati in Bangladesh, abbiamo alloggiato dai nostri parenti e vicini di casa, mentre ora viviamo in questo rifugio nel campo.
Andavo a scuola quando siamo fuggiti, quindi quando sono arrivato qui la mia istruzione si è interrotta. Avevo voti alti. Mi piace imparare, ma adesso, non posso studiare né procurarmi i libri di cui ho bisogno. Nei campi profughi Rohingya è disponibile solo l’istruzione primaria, niente di più. La nostra istruzione è bloccata dove l’abbiamo lasciata.
L’unica possibilità di imparare è quando gli insegnanti della nostra comunità riuniscono i bambini Rohingya per insegnare loro. Ci insegnano con tutto il cuore. Alcuni dei miei amici saltano le lezioni perché devono mantenere le loro famiglie. Mi dispiace per loro. Se ricevono un’istruzione, possono insegnare ad altri e creare un’ondata. Solo così la nostra comunità si svilupperà e la nostra generazione farà del bene.
Il mio sogno era diventare medico per essere utile alla comunità. Fin dall’infanzia ho visto i medici aiutare le persone e fare del loro meglio. Adesso capisco che il mio sogno potrebbe non realizzarsi mai. Comunque, mi sento felice quando vado a lezione e incontro i miei amici. Cerchiamo di essere felici mentre studiamo e giochiamo. La nostra vita nel campo non è facile. L’incentivo che mio padre guadagna non è sufficiente per mantenere la mia famiglia. E a volte, quando torno da scuola la sera, non mi sento al sicuro.
Vorrei rivolgermi ai giovani come me in tutto il mondo. Vi prego di sfruttare l’opportunità che avete e di imparare il più possibile. Io e i miei compagni rifugiati Rohingya non abbiamo questa opportunità”. Anwar
Nabi Ullah, 25 anni, è fuggito in Bangladesh con la sua famiglia nel 2017. Non tutti i membri del gruppo con cui sono fuggiti sono sopravvissuti al viaggio. Ora, a distanza di cinque anni, Nabi Ullah e sua moglie riflettono su cosa sarebbe necessario per poter tornare in Myanmar.
In Myanmar lavoravo come agricoltore. Coltivavo la terra sulle colline e ci nutrivamo del raccolto. Non c’era bisogno di guadagnare soldi perché coltivavamo il nostro cibo.
Quando è arrivato l’esercito [nel 2017], sono rimasto privo di sensi dopo che mi hanno torturato. I miei vicini sono stati massacrati e bruciati; altri sono scomparsi. Hanno dato fuoco all’intero quartiere. Siamo dovuti scappare. Ho messo in valigia alcuni farmaci, ho raccolto le forze e la mia famiglia e siamo partiti.
Mentre stavamo scappando sulle colline, circa 10 persone del nostro gruppo sono state uccise, racconta Nasima, la moglie di Nabi. Mio marito, i suoi genitori e io siamo sopravvissuti, ma la mia famiglia non ce l’ha fatta. Ho perso i miei genitori e i miei fratelli. Abbiamo dovuto lasciarli indietro e attraversare il confine con il Bangladesh.
Dopo aver attraversato il confine, il governo del Bangladesh ci ha dato rifugio e cibo. Poi siamo stati mandati in questi campi.
Mi manca il Myanmar. Ho un figlio maschio e due femmine. Mio figlio è nato qui nell’ospedale di Medici Senza Frontiere. Ha un anno e mezzo. Le mie figlie sono nate in Myanmar. Mia moglie è ora incinta di un altro bambino. Facciamo affidamento sull’assistenza alimentare e fatichiamo a pagare le altre cose di cui abbiamo bisogno, come comprare i vestiti per i bambini. Siamo in una situazione disastrosa.
Qui nei campi le persone soffrono molto di febbre, diarrea, mal di gola e altre malattie. Quando ho la febbre, mi si gonfia la gola e ho difficoltà a respirare. Una volta sono stato portato in ambulanza all’ospedale di Kutupalong e sono stato ricoverato per tre giorni perché avevo bisogno di ossigeno. Vado da MSF ogni volta che avverto un disagio e porto anche i miei figli per diversi tipi di disturbi.
Mi preoccupo dei miei figli e di costruire un futuro per loro. Voglio che ricevano un’istruzione. Non c’è ricchezza più grande dell’istruzione. La vita qui sarà ancora più difficile se i nostri figli cresceranno senza un’istruzione.
A tutti noi manca moltissimo la nostra casa. Non ho nemmeno voglia di mangiare quando mi torna in mente il Myanmar. Saremo sempre grati al governo del Bangladesh per averci sostenuto. Non sarà mai abbastanza ringraziare il governo per aver sostenuto così tante famiglie. È solo che vogliamo tornare a casa.
Penso sempre a cosa ci aiuterebbe a tornare in Myanmar. Possiamo tornare solo se il governo ci accetta come cittadini e ci restituisce le nostre case, le nostre terre e i nostri documenti. Vogliamo andare nel luogo in cui i nostri diritti saranno garantiti.” Nabi Ullah
La notte prima di scappare dal Myanmar, il 45enne Hashimullah si è svegliato con il rumore dei proiettili. La mattina dopo è fuggito. Cinque anni dopo, dal suo letto d’ospedale nella nostra struttura a Cox’s Bazar, i ricordi vividi delle scene della sua fuga lo portano a chiedersi se sarà mai abbastanza sicuro tornare indietro.
Siamo arrivati in Bangladesh nel 2017. Siamo venuti qui perché i Rohingya venivano arrestati e uccisi in Myanmar. I nostri quartieri bruciavano uno dopo l’altro. Dagli aerei venivano lanciate bombe. Abbiamo subito questa situazione per otto giorni, sperando che le cose si calmassero. Ma le cose sono solo peggiorate.
Una notte, verso le 4 del mattino, quando tutti dormivano, iniziarono a piovere proiettili. Tutti erano spaventati. Al mattino abbiamo visto corpi morti che galleggiavano nei canali. Alcune persone erano ancora vive, ma nessuno si è avvicinato a loro. I militari si stavano dirigendo verso la zona in cui eravamo nascosti. Tutti erano spaventati per la loro vita e hanno iniziato a fuggire ovunque potessero. Molti Rohingya sono stati massacrati. Ma anche prima del 2017, gli uomini venivano rapiti, le donne violentate e i militari prendevano il nostro bestiame.
Il giorno in cui siamo fuggiti, un gran numero di persone si è radunato al confine. La gente mandava barche dal Bangladesh per metterci in salvo. Eravamo un gruppo numeroso. Molte persone sono annegate in mare durante il viaggio verso il Bangladesh. Io sono sopravvissuto al viaggio e ho raggiunto Shah Porir Dwip [un’isola sul lato del confine con il Bangladesh]. Da lì siamo stati portati a Teknaf [a Cox’s Bazar] con veicoli forniti dal governo del Bangladesh e la gente del posto ci ha dato cibo e denaro. Poi ci siamo spostati a Kutupalong, dove ci sono stati assegnati diversi campi.
All’inizio non avevamo materiali per costruire un rifugio. In seguito, il governo del Bangladesh ci ha fornito i materiali per i rifugi e abbiamo iniziato a costruirli.
Ora sono qui da cinque anni. Due anni fa mi sono ammalato. Mi girava la testa e sentivo fastidio al petto. Ho perso i sensi e sono stato portato all’ospedale di MSF a Kutupalong. Il medico mi ha detto di aver trovato un problema cardiaco. Sono stato curato qui per 16 giorni e alla fine sono guarito. Qui soffriamo di molte malattie. I nostri rifugi sono ancora gli stessi rifugi temporanei di quando siamo arrivati – hanno resistito a condizioni climatiche estreme. Abbiamo bisogno di altri materiali per i rifugi, ma è difficile trovarne con le restrizioni di movimento nei campi. Sono state erette delle recinzioni e non possiamo muoverci come prima.
Il governo ci fornisce alcuni generi alimentari e siamo grati per le cose che riceviamo, ma a volte non sono sufficienti e dobbiamo cercare di comprare del pesce.
Alcuni di noi lavoravano come pescatori in Myanmar e altri erano agricoltori. Siamo fuggiti qui, ma il nostro cuore è ancora a casa. Io vivevo sulla riva del fiume. La mia attività consisteva nel vendere reti da pesca e i miei figli pescavano. A quel tempo, il Myanmar era sicuro per noi e potevamo muoverci. Ma non potevamo godere dei nostri guadagni a causa dei militari. Se importavamo e registravamo cinque mucche, dovevamo dargliene due. Dovevamo pagare 60.000 kyat ai militari se le nostre figlie si sposavano. Se qualcuno voleva costruire una casa, doveva pagare 500.000 kyat per assumere un geometra.
Anche se i nostri cuori desiderano tornare, come possiamo farlo se la nostra sicurezza non è garantita? Se il mondo deciderà che possiamo essere rimpatriati [in sicurezza], solo allora partiremo. Il mio unico bisogno è il diritto di vivere con dignità in Myanmar, come stiamo facendo qui. Milioni di Rohingya vogliono godere dei loro diritti ed essere al sicuro a casa.” Hashimullah
Mohamed Hussein, 65 anni, ha lavorato come impiegato civile presso l’ufficio del Ministro dell’Interno in Myanmar per oltre 38 anni. Nel 1982 gli è stata tolta la cittadinanza a causa della sua etnia Rohingya. Da allora, Razi ha visto erodere i suoi diritti e le sue libertà. È stato costretto a fuggire in Bangladesh e da cinque anni si trova nei campi.
Ho terminato la scuola superiore nel 1973. Avevo anche un lavoro come impiegato statale perché all’epoca i Rohingya erano riconosciuti dalla Costituzione. Ci nominavano direttamente dopo aver controllato che avessimo completato la scuola superiore. Dopo aver ottenuto l’indipendenza dal dominio britannico nel 1948, il governo ci ha accettati come cittadini. Se il padre di una persona era nato in Myanmar e anche il figlio lo era, entrambi potevano essere riconosciuti come cittadini. Le persone di ogni etnia godevano di uguali diritti. Nessuno veniva discriminato.
Tutto è cambiato nel 1978, quando è stato condotto il censimento Naga Min, o “Re Drago”. Il censimento determinò chi era cittadino del Myanmar e chi del Bangladesh. Molte persone furono arrestate perché non avevano i documenti in regola. Temendo per la mia vita, sono fuggito. In seguito, il governo del Myanmar ci ha ripresi. Avevano fatto un accordo con il governo del Bangladesh e ci avevano promesso che se fossimo tornati, i nostri diritti sarebbero stati garantiti. Questa promessa non è stata mantenuta. Le terre furono restituite ai proprietari, ma i nostri diritti non furono garantiti. Questo fu l’inizio della nostra oppressione.
Fummo trattati come paria e la graduale privazione si trasformò in persecuzione. Le autorità ci hanno tolto la cittadinanza [in Myanmar]. Con la legge sulla cittadinanza [del 1982], sono state riconosciute delle categorie di etnia e sono state annunciate le percentuali di ciascuna di esse. Questa categorizzazione non esisteva prima. In quel periodo, nonostante la cittadinanza ci fosse stata tolta, i Rohingya erano ancora accettati nel Paese come stranieri. Diverse regioni trasmettevano le notizie sulle comunità Rohingya.
Dopo la presa di potere dei militari, le nostre trasmissioni radiofoniche sono state cancellate. Se siamo veramente stranieri, perché la vecchia Costituzione non ci riconosceva come tali? Non ci è stato più permesso di proseguire gli studi superiori. Sono state imposte restrizioni ai viaggi e i militari ci hanno accusato di essere coinvolti in conflitti con i buddisti. Alcuni noti membri della comunità Rohingya sono stati arrestati o multati perché accusati di opprimere i buddisti. È stato imposto il coprifuoco e se qualcuno veniva trovato a visitare un’altra casa, veniva torturato.
Così abbiamo iniziato a tenere la bocca chiusa quando succedeva qualcosa nella nostra comunità. Ogni anno venivano emanati nuovi ordini. Chi non si adeguava veniva arrestato. Nonostante tutto questo, potevamo ancora votare. Abbiamo eletto membri che hanno partecipato alle sessioni parlamentari. Poi, nel 2015, ci è stato tolto anche il diritto di voto. Ci siamo sentiti sminuiti e preoccupati. Nel Paese in cui avevano vissuto i nostri antenati, non potevamo più votare. Il nostro cuore affondava quando ci chiamavano “intrusi”.
Il trattamento ingiusto è arrivato al punto che siamo dovuti fuggire. Una mattina [nel 2017] abbiamo sentito degli spari. [Poi], un giovedì sera, hanno sparato dalla postazione militare vicino a casa nostra. La mattina dopo abbiamo sentito che alcuni Rohingya erano stati uccisi. Quando la gente ha visto i militari entrare nella nostra zona, ha iniziato a scappare. Eravamo terrorizzati, perché i militari arrestavano e uccidevano persone ovunque.
Scappando per salvarci la vita, siamo arrivati qui in Bangladesh. Siamo stati fortunati a essere arrivati vivi. Il Bangladesh sta facendo molto per noi e ci sta vicino. Quando siamo arrivati qui, eravamo molto fiduciosi. Ma ora ci sentiamo bloccati. La vita è diventata difficile. Il mio cuore è inquieto per questo motivo. Ogni volta che esco, vengo perquisito [dalle guardie]. Non posso nemmeno andare a trovare i miei figli. Una delle mie figlie vive a Kutupalong e un’altra vive nelle vicinanze. Mi ci vuole molto tempo per raggiungere i loro rifugi quando cerco di far loro visita.
La reclusione mi preoccupa. Sono in ansia per il nostro futuro, perché i nostri figli non ricevono un’istruzione adeguata. Che rimangano qui o tornino in Myanmar, cosa faranno senza istruzione? Passiamo molte notti insonni pensando a questo.
Ricevo cure mediche per il diabete e l’ipertensione in una struttura di MSF all’interno del campo, ma il trattamento per la mia malattia renale non è disponibile nel campo. Non posso uscire per ricevere questo trattamento, quindi la mia speranza è che diventi disponibile nei campi.
Sono vecchio e morirò presto. Mi chiedo se vedrò la mia patria prima di morire. Il mio desiderio è di esalare l’ultimo respiro in Myanmar. Non so se questo desiderio si realizzerà. Il mio cuore desidera il rimpatrio in Myanmar, con la garanzia che i nostri diritti vengano tutelati e che non saremo ulteriormente perseguitati.
Mi spaventa la possibilità di dover affrontare nuovamente la persecuzione in Myanmar e, poiché le nostre famiglie sono lì, dobbiamo pensare alla loro sicurezza. Se fossimo riconosciuti come cittadini, saremmo trattati in modo equo in Myanmar. Dovremmo poter studiare, condurre la nostra vita e spostarci come qualsiasi altro cittadino del Myanmar.
Dovremmo poter votare, partecipare alle elezioni e far sentire la nostra voce in Parlamento. Ora che tutti i nostri diritti ci sono stati tolti, non siamo altro che cadaveri ambulanti. Il mondo è fatto perché tutti possano vivere. Oggi, pur essendo esseri umani, non abbiamo un nostro Paese. Sto dicendo al mondo che siamo umani quanto voi. Poiché siamo nati come esseri umani, desideriamo vivere una vita dignitosa. Chiediamo al mondo di aiutarci a vivere da umani. Il mio desiderio è avere diritti e pace.” Mohamed Hussein