Tragedia sulla Moby Zazà: prima vittima di insensate navi quarantena

Tragedia sulla Moby Zazà: prima vittima di insensate navi quarantena

La notte fra il 19 e il 20 maggio un uomo è morto annegato a poche miglia dalla costa italiana. Era stato soccorso in mare e avrebbe potuto essere accolto a terra. Invece, insieme ad altri 120 esseri umani, si trovava a bordo del traghetto Moby Zazà, fermo davanti a Porto Empedocle, dal quale si è gettato in acqua.

È questa la prima vittima di una delle misure illogiche intraprese dal governo italiano che si sono tramutate in strumenti inutili e lesivi dei diritti delle persone soccorse, denunciano le organizzazioni Medici Senza Frontiere, Mediterranea, Open Arms e Sea-Watch.

Il decreto che dispone l’utilizzo di navi private messe a disposizione dal governo per espletare l’obbligo di quarantena è diretta conseguenza di quello del 7 aprile scorso, con il quale l’Italia ha dichiarato non sicuri i suoi porti.

Abbiamo inoltre già sottoposto le nostre perplessità sul dispositivo delle navi quarantena alle autorità competenti, chiedendo di sapere su quali basi giuridiche si fondi il procrastinato sbarco dei naufraghi che potrebbero espletare le misure di quarantena a terra.

Anche prima di questo tragico episodio, altre recenti incongruenze e prove di forza inaccettabili sulla pelle delle persone soccorse hanno messo in evidenza l’inadeguatezza delle misure adottate dal governo in tema di soccorso in mare durante l’emergenza Covid-19.

Il 9 maggio scorso, per esempio, la nave cargo Marina, battente bandiera di Antigua e Barbuda, ha finalmente potuto far sbarcare a Porto Empedocle i 78 naufraghi che aveva soccorso una settimana prima nella zona SAR maltese, in prossimità di Lampedusa.

Il governo non ha ritenuto necessario ricorrere all’utilizzo di “navi quarantena” e i naufraghi sono stati accolti a terra, mentre l’equipaggio, ripartito subito dopo le operazioni di sbarco, non è stato sottoposto alla misura di quarantena né a controlli che avrebbero costretto la nave a ulteriori ritardi.

Non possiamo fare a meno di notare come la gestione di questo caso presenti delle evidenti difformità e contraddizioni rispetto al trattamento riservato dal governo italiano alle navi umanitarie.

Le navi Alan Kurdi e Aita Mari, delle ONG Sea Eye e Salvamento Maritimo Humanitario, sono sottoposte a fermo amministrativo, mentre il Mediterraneo è privo di assetti navali umanitari in un periodo in cui, come abbiamo constatato, gli stati europei vengono costantemente meno al loro dovere di garantire i soccorsi in mare.

Non contestiamo il diritto delle autorità a effettuare controlli, ma se questi fossero motivati, come dichiarato, da una preoccupazione per la sicurezza delle persone accolte a bordo, il governo dovrebbe sopperire con i propri assetti navali all’assenza di mezzi di ricerca e soccorso in mare provocata dai fermi amministrativi.

Il provvedimento di fermo appare particolarmente ingiusto, dal momento che le due navi umanitarie hanno effettuato soccorsi in giorni in cui nessun’altra imbarcazione era intervenuta per soccorrere le oltre 200 persone in pericolo avvistate dagli assetti Frontex.

Le ONG di ricerca e soccorso hanno cercato sempre di operare in coordinamento con gli Stati di bandiera e tutte le autorità marittime competenti, dell’Italia così come degli altri stati costieri interessati. Abbiamo sempre richiamato la necessità di un maggiore impegno da parte degli stati europei per la costituzione di un sistema strutturato di ricerca e soccorso che veda impegnati assetti governativi oltre che umanitari.

Abbiamo ribadito la necessità di un’equa redistribuzione delle persone soccorse su tutto il territorio europeo, compatibilmente con la garanzia dei loro diritti fondamentali, e una maggiore assunzione di responsabilità da parte di tutta l’Unione europea.

Chiediamo pertanto che, nell’interesse di tutti, a cominciare dalla salvaguardia delle persone che rischiano la vita in mare per fuggire dalla Libia, il governo italiano abbandoni questo atteggiamento vessatorio nei confronti delle ONG e non ostacoli le attività di ricerca e soccorso delle navi umanitarie senza garantire, in alternativa, un intervento con assetti propri e dei partner europei.

L’emergenza sanitaria che ha travolto il mondo non può essere l’ennesima scusa per giustificare pratiche di non assistenza in mare. La vita e la dignità delle persone devono tornare a essere la priorità.