Il sole sorge, ancora timido per riscaldare il cielo invernale, abbastanza in alto per illuminare una città colma di palazzi bianchi che dalla valle salgono verso i colli. Siamo a Nablus, città bianca, un labirinto di viuzze compone il centro storico, larghe strade e vertiginose curve si dipanano verso i quartieri sui colli. Mi ricorda Napoli.
È gennaio, ore otto, attraverso le strade affollate e frastornate dai clacson all’ora di punta, le auto sfrecciano frettolose, mi dirigo verso la nostra clinica di salute mentale. Sono appena arrivata. In Palestina. Da questo primo giorno e per i prossimi nove mesi di questo 2023, il mio lavoro, in collaborazione con i colleghi palestinesi, sarà quello di coordinare le attività di supporto psicologico, psichiatrico e sociale rivolte alla comunità palestinese che vive nei territori occupati in Cis-Giordania.
Febbraio 2023. L’incontro con la Palestina e con i miei colleghi
Il mio arrivo è scandito da una escalation di violenza. In un attacco militare nella città vecchia perdono la vita oltre dieci persone. I funerali scorrono sotto il nostro ufficio, la citta si ferma.
I colleghi palestinesi mi raccontano che questo accade spesso. Anche se sono nati qui, e incontrano tali vicende fin dai loro primi anni di vita, mi dicono che non ci sia abitua al dolore e al lutto. Le operazioni militari sono routine, rendono non di rado difficile per i pazienti raggiungere le nostre cliniche e per il nostro team muoversi verso la comunità.
Viviamo e lavoriamo in uno stato di allerta costante. Prepariamo i piani di “contingenza”. Vale a dire i piani alternativi per garantire le cure durante i giorni particolarmente instabili. Come funamboli, in questi primi giorni e per il resto dei mesi a venire, camminiamo costantemente su quel filo che oscilla tra una dura quotidianità e la necessaria fiducia in una vitale umanità. Barcolliamo – tra i check point che aprono e chiudono – per garantire le cure.
Il mio lavoro non sarebbe possibile senza la collaborazione dei colleghi palestinesi. Sono competenti, tenaci, custodi della memoria storica di questa nostra clinica che opera da vent’anni qui, custodi della memoria della loro terra, speranza per il futuro. Li ascolto con un nodo alla gola mentre mi raccontano le storie e i lutti vissuti nelle loro vite. Ancora oggi le loro voci tremano mentre narrano dei confini di ieri e di oggi, delle libertà perdute. Poi scoppia un sorriso dolceamaro: esiste ancora questo pezzo di terra chiamato Palestina – è la parte più arida e aspra di un territorio più vasto – ma, malgrado questo e nonostante sempre più ridotto, resta ancora una dimora per molti.
Il tempo scorre, l’occupazione sembra invadere non solo le strade e le città, ma anche la psiche individuale e collettiva, compresa la mia. Ho a lungo letto sulla storia palestinese, ricordo i telegiornali da bambina, dopo oltre trent’anni sono qui, nel mezzo di una storia senza fine, “normalizzata” dai media e dal mondo. Il contatto con questa realtà mi rende il respiro corto. L’occupazione non si limita solo a ciò che è noto a tutti, come i droni nel cielo, gli attacchi a terra, le bombe, la demolizione delle case, le auto date alle fiamme, le ruspe che smantellano dimore. Esistono vicende quotidiane più silenziose, meno testimoniate, intime: mi avvio all’incontro con il danno psichico che l’occupazione provoca.
Marzo 2023. Il cammino continua tra le strade in Palestina
Il mio passaporto mi offre il privilegio di poter attraversare le strade e le città. Il mio visto e la mia nazionalità mi consentono liberi spostamenti. Che fortuna!
Per i miei colleghi, come per la maggior parte dei palestinesi, il movimento è estremamente limitato e sottoposto a una continua validazione dell’autorità esterna. Il colore delle targhe è verde per i palestinesi, giallo per gli israeliani. Strade specifiche per gli uni e per gli altri. Muri e fili spinati separano villaggi e città, creando zone inaccessibili per alcuni e aperte per altri. Blocchi e controlli, checkpoint che aprono e chiudono senza preavviso e che scandiscono il ritmo della vita quotidiana. Stabile imprevedibilità.
L’umiliazione di non poter andare a cena da amici perché i checkpoint forse sono chiusi. La paura di avere quotidianamente dei mitra puntati in entrata e uscita dalla città. La mortificazione di non poter liberamente correre verso il mare, a due passi, ma al di là del pezzo di terra consentito. Lo sconforto di non poter essere liberi di scegliere, di pianificare una passeggiata, una vacanza, un lavoro. Tutto è imprevedibile, deputato al controllo altrui, circondato da un muro tanto fisico quanto invisibile. Psiche occupata.
Maggio 2023. Una insostenibile primavera
Qui a Nablus, la città principale della Cisgiordania, ci sono università, scuole, ospedali, palestre, bistrot e caffè. Tuttavia, ogni cosa che esiste è avvolta da un velo, un senso amaro di presente e spesso una mancanza di fiducia nel futuro.
Soprattutto le giovani generazioni conoscono la limitazione degli spazi e dei movimenti. Dei sogni. Le strade esistono ma i movimenti sono scanditi, di nuovo, dai checkpoint, dai muri, dai fili. Mi borbotta una collega l’ingombranza dell’incertezza. E, ancor più doloroso, tutto è sottomesso all’approvazione altrui. Le esistenze palestinesi barcollano continuamente, come fossero non degne di autonomia, riconoscimento, stabilità.
Quali sogni possono sopravvivere in un giovane palestinese di fronte a questa insostenibile incertezza? Lavoriamo per rintracciarli e fargli spazio. Per reperire una intima libertà.
Giugno 2023. La cura
Tradurre il dolore in parole, fare spazio ai sentimenti più incastrati: è il nostro mestiere qui. Nel mezzo di un disagio collettivo, lavoriamo per rintracciare e dare spazio alla specificità individuale.
Questo è il nostro atto di cura, verso una intima libertà; talvolta, un sentiero verso la riconciliazione. La strada della trasformazione è ardua ma la riconciliazione dentro sé stessi è – lievemente – più accessibile. “Cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”, Calvino mi offre le sue parole per descrivere quello che quotidianamente proviamo a fare nei nostri interventi di supporto psicologico.
I nostri pazienti sono adulti, bambini, giovani. Ognuno con una sofferenza specifica. Ognuno con i propri pezzi di sogni che proviamo a salvare tra le macerie. Sì, proviamo a salvare oggetti, interni per lo più, per sopravvivere al dolore. Proviamo a salvare pezzi di desiderio, pezzi di aspirazione, pezzi di vita e speranza. E allora noi ascoltiamo, ci siamo, proteggiamo questi pezzi vitali. Lasciamo che prendano il loro spazio, delicatamente nelle vite di ognuno, in una forma unica e specifica per ciascuno. Non possiamo modificare l’esterno, ma provare a rimarginare ferite invisibili resta il nostro atto di cura.
Come una funambola tra i fili sottili della vita e della morte, dell’oblio e del tentativo di resistere ad essa, barcollo e avanzo con cautela. Questo mio lavoro qui, scuote e turba, mi richiede coraggio e il contatto con un disorientamento interno. Come il mondo possa essere indifferente a questo, mi chiedo ogni giorno. E questo è perturbante ancor più dell’incontro con le storie di “ordinaria” quotidianità.
Luglio. Il perturbante e la speranza
Sono da sei mesi qui, ho svolto riunioni internazionali, letto rapporti, articoli, libri, e non trovo una ragione alla inumanità di queste vicende. Thanatos prende spazio in questa terra. La miseria umana si manifesta con tutta la sua forza.
Intense operazioni militari hanno sconvolto la vita di intere città e comunità negli ultimi giorni. Nuovi sfollati, un tempo già rifugiati. Nuove dimore distrutte, altri pezzi di vita sopravvissuti, forse da rimarginare. Una storia infinita di dolore, rabbia e violenza che si succedono in una danza mortifera per tutti.
Dinnanzi agli occhi silenziosi del mondo. Ieri come oggi. L’indifferenza ferisce. Pensavo ce lo avesse insegnato bene la storia. Forse non siamo abbastanza accorti. Quale è, allora, oggi, l’antidoto contro l’indifferenza? Non l’ho capito bene. Ma se – come dice ancora Calvino – “bellezza e sapienza e giustizia ci sono solo in ciò che è fatto a brani”, allora in questi brani provo a collocare la mia fiducia, provo a restare qui, con i miei colleghi, per ascoltare e rintracciare i brani soggettivi di bellezza e desiderio dei nostri pazienti. Provo a scrivere questi brani per condividere frammenti di dolore e speranza.
Sono le 9.30 del mattino del 20 luglio, oggi è finito l’anno scolastico. Sono appena stati diffusi i risultati degli esami. Questo momento era atteso da giorni. La città è sommersa da fuochi d’artificio. I clacson attraversano le strade. Giovani festosi gioiscono. I genitori tirano un respiro di sollievo e soddisfazione. I knafeh sono pronti da mangiare. Pausa da ogni attività. È il tempo della speranza, della gioia, dei sogni realizzati e di quelli che verranno. Il mio cuore si espande dinnanzi a questa gioia condivisa. La forza della cultura!
I mesi che verranno
Questa pagina è ancora tutta da scrivere. Non so cosa accadrà, ,ma se continueremo a tendere la mano alla flebile e audace speranza che malgrado tutto sopravvive, se continueremo ad interrogarci, anche a perturbarci, dinnanzi a tali vissuti allora, forse, potremo fare spazio ad una umanità – alla deriva – ma non del tutto scomparsa.
*Versione estesa del racconto pubblicato su Corriere – Buone Notizie