Condivido la storia di Hanan, donna yemenita, in occasione della Giornata internazionale della donna, con la speranza che venga letta senza tristezza né ricerca del dramma, ma con una rinnovata consapevolezza di quale sia l’obiettivo per cui valga la pena lottare: che le donne e gli uomini in tutto il mondo abbiano uguali possibilità di accedere ai servizi essenziali che tante volte si danno per scontati.
Se la storia di Hanan è da una parte uno splendido esempio di resilienza in condizioni estreme, vuole anche però essere un’esortazione a riflettere sulla relatività del valore della vita, quando è quotidianamente messa a repentaglio.
Quando il telefono squilla alle tre del mattino non è mai una buona notizia, a Mocha, in Yemen.
Sabah alkhyr Giulia, how are you? Nuova paziente: Hanan, 20 anni. Prima gravidanza, a termine. È in travaglio da quattro giorni. Il bambino è già morto, vieni ad aiutarmi a mettere una ventosa”?
Così risuona la vocina concitata di Altaf, ostetrica yemenita, in un torrido mattino come tanti altri; acchiappo abaya, velo per la testa e telefono e in un battibaleno sono in macchina verso l’ospedale di Medici Senza Frontiere.
Quello che non ha menzionato al telefono è un “dettaglio” a cui è facile fare l’abitudine in Yemen: Hanan ha una gamba amputata sopra il ginocchio, una gigantesca cicatrice di una laparotomia che le attraversa la pancia e una colostomia. Da quando la sua casa è stata colpita da un attacco aereo quattro anni fa a Durahimi, non ha più parlato.
La storia di un parto in Yemen
La nonna che la accompagna sembra un po’ confusa, ma ci racconta la storia: dopo aver provato a partorire a casa il primo giorno, sono andate in una clinica locale a Durahimi, dove sono rimaste mezza giornata. La clinica chiude a mezzogiorno, necessario dunque andare in un altro ospedale in una città più grande. Sono rimaste due giorni ma il bambino non riusciva ad uscire. Le ostetriche le hanno detto che non c’era più battito.
Non avendo nessuno strumento per aiutare la nascita, hanno deciso di trasferirla a Mocha, nell’ospedale pubblico. Lì Hanan è rimasta solo qualche ora perché il medico di notte non aveva esperienza in ostetricia. È a questo punto che arriva nell’ospedale di MSF. Dopo quasi quattro giorni, passando per tre ospedali, è riuscita ad arrivare in un centro adeguato a risolvere la complicazione che le stava rubando le forze.
Non sono stupita: il viaggio da Durahimi a Mocha dura quasi cinque ore, si viaggia su una strada dissestata in mezzo al deserto in una zona di guerra dove attacchi, mine e sparatorie sono tutt’altro che rari.
Le donne si trovano sempre a soppesare il concreto rischio del viaggio contro il potenziale beneficio di trovare in tempo un ospedale che abbia medicine, attrezzatura medica, personale competente per assistere al parto o per fare un cesareo se necessario.
Dopo aver esaminato Hanan e il suo bambino, Altaf ed io sospettiamo che il bimbo sia morto in seguito a gravi malformazioni e sia per questo che non è ancora riuscita a partorire. La testa è già incanalata, ma la nonna dice che è allo stesso livello da almeno un giorno.
Prima di iniziare le manovre e dopo aver spiegato la procedura, la gracile anziana mi prende le mani, mi bacia la fronte e mi dice che adesso è tutto nelle mani di dio.
Mi dice che Hanan è già scappata alla morte una volta, non ce la farà una seconda.
La rassicuro ma capisco la sua paura, dal momento che i rischi di un travaglio ostruito sono molteplici: emorragia, rottura d’utero, infezione e, se non risolto in tempo, anche la morte.
Con questa funesta premonizione che mi risuona nel cervello durante tutto il parto, mettiamo in atto una serie di complesse manovre per liberare prima la testa e poi le spalle del bimbo.
La nonna non smette un attimo di cantare nenie e preghiere mentre io e Altaf, sudando e con il fiatone, ci concentriamo per completare il parto. Hanan collabora con noi, nonostante il dolore, la fatica e la stanchezza combatte per la sua vita con una forza che solo le mamme hanno. Il tutto richiede meno di un’ora, ma ci sembra un’eternità.
Una volta che il corpo è completamente fuoriuscito, ci scambiamo un’occhiata veloce, esauste e scosse dall’adrenalina: Altaf mi conferma con un cenno di stare bene e poi la nostra attenzione ritorna immediatamente ad Hanan, che adesso scoppia in una risata incontrollabile. Un riso cristallino, fuori luogo ed inquietante riempie la sala parto e mi provoca un brivido lungo la schiena.
Mi guarda dritta negli occhi con un sorriso splendente e unisce le mani tremanti per formare l’immagine di un cuore con le dita.
Sconfiggere due volte la morte
Mentre ho ancora fra le braccia il bimbo esanime, respirando a malapena piegata in avanti sul letto del parto, tutto quello che sono capace di fare in risposta è una smorfia di sollievo, tristemente consapevole dell’espressione forse inadatta dipinta sulla mia faccia.
È quando anche la nonna comincia a festeggiare con gridolini, grandi sorrisi ed abbracci che il mio stupore piano piano si trasforma in gioia. Ci vuole qualche minuto prima che mi colpisca come un’onda calda: Hanan è sana e salva, c’è parecchio da celebrare oggi, a Mocha.
La verità è che non ha avuto altra scelta se non mettere la sua vita nelle nostre mani; troppe donne nel mondo non hanno opzioni, nessun altro posto dove andare.
Hanan ha rischiato la vita due volte e ha vinto, in entrambi i casi. Chapeau Hanan, continua a vincere.