Gaza. Lo sapevo che ci sarei tornato. Sono passati dieci anni. Era inverno, come ora. C’era una guerra in corso, come ora. Le cicatrici peggiori rimanevano sul corpo dei bambini, come ora. Il cuore ribolliva di rabbia, come ora.
È stata la missione più difficile, come lo sarà questa, per una fatica che allora non conoscevo e che mi metterà in difficoltà anche adesso: l’annebbiamento di uno dei cardini dell’azione umanitaria, la mia neutralità. Dieci anni fa mi preoccupavo della mia preparazione clinica, del carico di lavoro, delle condizioni ambientali, dei feriti. Dei bambini. Poi entrai nella Striscia. “We are happy to have you here!”.
Così mi accolsero i palestinesi. Era la fine del 2008. Negli USA mancavano poche settimane al termine del mandato di Bush jr. Nella Striscia governava Hamas che, insieme a milizie indipendenti, aveva ripreso il lancio di razzi da Gaza verso i villaggi nel Sud di Israele.
Gli israeliani, prossimi alle elezioni politiche, avevano deciso per una massiccia operazione aerea e di terra che chiamarono Piombo Fuso. In Italia (perché tutto è davvero già visto) gli Ordini dei medici chirurghi insieme alle principali Ong mediche, tra cui Medici senza Frontiere, si mobilitavano contro una norma in discussione al Senato che avrebbe obbligato i medici di pronto soccorso a segnalare i pazienti stranieri irregolari.
Nella primavera del 2009, l’ONU istituì una commissione per investigare le violazioni delle leggi internazionali e dei diritti umani commesse nel contesto dell’operazione Piombo Fuso.
Ne nacque il rapporto Goldstone (presidente della commissione, già giudice della corte costituzionale del Sud Africa e membro del Tribunale penale internazionale per la ex-Jugoslavia e il Rwanda).
Israele ha condotto una politica di isolamento mirata alla punizione collettiva della popolazione di Gaza, minata da tre anni di blocco totale, privata di beni essenziali, come medicinali, carburante, elettricità, materiali scolastici e materiali per l’edilizia e resa dipendente dagli aiuti umanitari internazionali”.
Me lo ricordo ancora: un paesaggio martoriato e grigio e un aereo da ricognizione che ronzava costantemente sopra le nostre teste, la prima visita all’ospedale di Al Shifa conun bambino che vendeva il tè in mezzo alle ambulanze cariche di feriti. Poi la costruzione e l’allestimento del nostro ospedale di emergenza, alloggiato in una tenda gonfiabile. La brusca diminuzione delle urgenze con la fine dell’operazione Piombo Fuso e l’inizio della triste attività di revisione dei monconi infetti dopo le amputazioni fatte in condizioni precarie.
Anche ora è così: il 90% di quelli che a Gaza chiedono soccorso all’ospedale di MSF hanno ferite da arma da fuoco alle gambe, il 52% ha fratture esposte. Per molti le amputazioni sono l’unica scelta, anche perché la mancanza di protocolli di controllo delle infezioni, le prescrizioni irrazionali e la facile disponibilità di antibiotici ha creato una resistenza agli antibiotici difficile da gestire (BMJ ottobre 2018).
Essere un chirurgo in queste circostanze è per certi versi semplice. Sai che fuori c’è l’inferno, ma non puoi fare nulla per quello. Entri in sala operatoria e ti concentri sul tuo paziente. Poi fai del tuo meglio per il successivo. Uno alla volta. Provi a non pensare a quelli che verranno dopo”.
Così racconta la professoressa Elda Baggio, chirurga dell’Università di Verona, in missione a Gaza con MSF la scorsa estate.
Pubblicato su Altreconomia a Dicembre 2018