L’auto si inerpica per le strade ripide della città e improvvisamente vedo il mare. Mi ero dimenticata di avere il mare così vicino. Mentre guardo quella striscia blu, ripenso a come è partita questa missione.
Circa un mese fa ricevo un messaggio da Livia, la mia amica che da Bruxelles gestisce la missione ad Haiti, da un mese colpita da una nuova epidemia di colera: “Vacanza ai caraibi?”.
Provo immediatamente quel misto di voglia e tensione di partire e, non lo nascondo, questa volta provo anche un po’ di paura. Conosco il contesto del paese e l’evoluzione drammatica delle ultime settimane. So che il colera è solo un ennesimo colpo a un paese allo sbando, dove violenza e povertà dilagano ogni giorno in un circolo vizioso senza fine.
Ci penso, ma non troppo. A volte è meglio sentire che pensare. Ed eccomi ai Caraibi.
Un quartetto musicale accoglie i passeggeri nell’aeroporto di Port au Prince…come in un tentativo disperato di ricordarci che questo potrebbe essere un paradiso per le vacanze, come del resto lo è l’altro lato dell’isola, Santo Domingo. Ma già mentre sono in coda ai controlli, una signora haitiana guarda il mio passaporto, si chiede che ci faccio qui e mi racconta di lei: “Io vengo a trovare la famiglia una volta all’anno, ma ormai è sempre più pericoloso: la violenza, i rapimenti, i prezzi che aumentano…Non so se continuerò a tornare”.
Per raggiungere l’ultimo dei centri colera aperti da MSF, aspetto 3 giorni. La strada più corta attraversa Martissant, un quartiere della capitale ormai teatro di scontri armati giornalieri. Fino a qualche giorno prima, usavamo la strada interna, che passa per le montagne, lunga ma più sicura, almeno fino a ieri. Ma da oggi anche quella è diventata troppo pericolosa. Così dopo tre giorni, negoziamo un cessate il fuoco per passare attraverso Martissant. Martissant è diventato un enorme quartiere fantasma. Non si vede anima viva. Vedo il palazzo che era stato una clinica MSF…ma oggi è diventato la base di un gruppo armato…
Il centro colera di Carrefour ha aperto da una settimana quando arrivo io, e già accoglie più di 100 pazienti. Mentre arrivano i pazienti, si continua a costruire, a calcolare gli ordini per la farmacia, i letti per il colera, si recluta e si forma il personale, si controlla la velocità di infusione delle flebo, si seguono le statistiche, la curva epidemiologica, i nuovi focolai, si monitora la sicurezza, si svuotano i secchi e si costruiscono sistemi di gestione delle feci.
Non c’è tempo per fare una cosa alla volta. Non c’è tempo per conoscere le storie dei pazienti, né per fissare nella memoria i loro volti. Non c’è tempo per pensare che nel quartiere accanto si stanno sparando. Non c’è tempo per accorgersi quanto sia vicino il mare.
Stamattina il primo messaggio che ricevo è la foto di una neonata. È la prima bambina nata viva in uno dei nostri centri. Non è il posto che augurerei per una nascita, ma lei è viva, sua mamma è viva. Appena arrivo al centro, vado a vederla. Dorme. La mamma sta ancora ricevendo l’idratazione in vena ma sta meglio. I suoi occhi, quelli sì, li fisso per sempre nella mia memoria.
Stasera è l’ultima sera di Stephanie, la logista del progetto. Siamo tutti stanchi, ma vogliamo celebrare questo saluto. Riusciamo a organizzare una bella cena e balliamo. Siamo tutti così diversi eppure per qualche settimana condividiamo la stessa acqua che sa di cloro, la stessa doccia fredda, la stessa paura di attraversare Martissant, e la stessa voglia di essere qui.
Prima di addormentarmi ripenso agli occhi di quella madre e alla striscia blu del mare e penso che stasera non potrei essere in nessun altro posto.