Non tutte le ferite sono visibili, alcune sono ferite invisibili legate ad eventi dolorosi che hanno sconvolto la nostra vita mettendo a dura prova il nostro equilibrio interiore.
La ferita di Aysha si lacera ogni volta che ricorda gli abusi che ha subito, quelle immagini ritornano alla sua mente improvvisamente, contro la sua volontà. Aysha è nata e cresciuta a Maiduguri, città nello stato del Borno, in Nigeria, dove Boko Haram semina terrore da un decennio.
Aysha ha subito violenze sessuali sin dall’infanzia. Quando ha deciso di raccontare per la prima volta dei suoi abusi ha già più di vent’anni. L’ultimo abuso ha riaperto la ferita, mai del tutto rimarginata e in un afoso giorno di dicembre ha raccolto tutto il suo coraggio e ha deciso di chiedere di poter parlare con uno psicologo di MSF.
Quando l’abbiamo accolta nella stanza di salute mentale la sua ferita emotiva ha cominciato a sanguinare copiosamente provocandole degli intensi tremori, catapultata nuovamente nell’incubo di quella stanza, il cuore martellava sempre più pesante e il respiro annaspava.
È difficile tamponare quella lacerazione, ma in pochi minuti siamo riusciti a riportare Aysha nel presente, alla realtà della clinica di MSF. Aysha lavora ogni giorno per rimarginare la sua ferita ed essere in grado di tamponarla da sola, quando le immagini tornano di notte, nella solitudine della sua camera da letto. Ci vorrà ancora del tempo per ricucire la sua ferita e ancor più per cicatrizzarla. Ma forse un giorno sarà capace di vederla e accettarla come parte della nuova Aysha.
Le ferite dei rifugiati Rohingya
La mia personale ferita ha il volto di tre persone, tre rifugiati Rohingya. Menara è scappata dal Myanmar, è arrivata con la figlia in Bangladesh cercando aiuto nel campo rifugiati più grande del mondo per sfuggire alle violenze subite in Myanmar a causa della persecuzione nei confronti della sua comunità. Quando è arrivata all’ospedale di MSF era incinta e ad accompagnarla c’era solo la figlia Shamsu, di cinque anni, che nonostante l’età sembrava già avere la forza di prendersi cura della madre.
Menara aveva un disturbo psichiatrico, era sola e aveva perso tutti i familiari durante il viaggio verso il campo rifugiati. Vivevano in una delle migliaia di baracche che occupano le colline del campo, grandi onde che si perdono nell’orizzonte.
Il suo disturbo le impediva di farsi accettare dagli altri abitanti del campo e riceverne il supporto. La piccola Shamsu aveva uno sguardo duro, quello di chi sa già che deve cavarsela da sola e preoccuparsi per la persona che invece dovrebbe proteggerla e crescerla, sua madre. Il team di salute mentale di MSF si è occupato di entrambe, due tra le più esperte counselor del team hanno preso in carico il loro piccolo nucleo familiare.
Abbiamo coordinato il nostro intervento con il reparto di salute riproduttiva e sessuale che l’ha accompagnata fino al momento del parto, insieme ai medici che seguivano il suo trattamento psichiatrico e con un’altra ONG che all’interno del campo si occupava di offrire servizi sociali e di protezione per i più vulnerabili.
Quando Habib è nato all’interno dell’ospedale di MSF, aveva una grave malformazione e siamo stati costretti ad inviarlo a un ospedale nelle vicinanze perché potesse ricevere l’operazione chirurgica necessaria per la sua sopravvivenza.
Dopo il recupero abbiamo continuato a seguire in sinergia con i servizi sociali dell’altra ONG la famiglia ormai allargata. Durante una delle visite settimanali, abbiamo notato che Habib era gravemente malnutrito, lo stato di Menara si era deteriorato velocemente e non si stava più prendendo cura del figlio appena nato. Lo abbiamo ammesso nel reparto di malnutrizione insieme a Menara, Shamsu e un’assistente che si sarebbe potuta prendere cura di tutti e tre. Una domenica mattina ho ricevuto la chiamata dall’ospedale: Habib non ce l’ha fatta, lo stato di malnutrizione ha aggravato il suo stato di salute già particolarmente vulnerabile.
A distanza di più di un anno la mia ferita sanguina ogni volta che penso al piccolo Habib, a cosa avremmo potuto fare di diverso per evitare la sua morte. Sanguina ogni volta che penso a Shamsu e Menara e mi chiedo se visitano ancora l’ospedale e stanno bene.
Diversamente dalla ferita di Aysha, la mia quando si riapre mi toglie le energie, in apnea inizio a ripercorrere gli eventi e a cercare soluzioni che possano evitare ciò che ormai è diventato inevitabile e curino quel senso di impotenza che mi spegne per qualche minuto.
Per ogni ferita personale e dei nostri pazienti ancora aperte ce ne sono altrettante rimarginate, altrettante storie di chi con il supporto di MSF ha curato la lacerazione tra il prima e il dopo del proprio evento traumatico e che hanno il potere di dare forza e coraggio di continuare a portare supporto là dove non ce n’è.