La Libia non è un paese sicuro.
Ne sentiamo parlare da tempo, è ben documentato, eppure credo che in molti non capiscano cosa realmente significa. Per molti migranti e rifugiati, vivere in Libia significa non avere diritti e vedersi tolta la possibilità di sentirsi al sicuro.
Se diventi bersaglio delle reti criminali, non puoi rivolgerti alla polizia: rischieresti di farti arrestare. Se il tuo datore di lavoro decide di non pagarti alla fine di una estenuante giornata di lavoro, non puoi farci niente. Mentre torni a casa, stanco e frustrato, potresti essere arrestato e trasferito in un centro di detenzione.
Nei quartieri senza legge di Tripoli
Questo è quello che è successo ad Hasan, un ragazzo di appena 17 anni. Quando l’ho incontrato, non la smetteva di guardarsi i piedi mentre mi diceva: “viviamo in condizioni disgustose. Mangiamo sul pavimento, lo stesso dove dormiamo, nella stessa stanza dove andiamo anche al bagno.
Quale essere umano può costringere qualcuno a vivere così?”
Hasan ha le mani consumate dal lavoro. Mi racconta di essere venuto in Libia per lavorare e mandare a casa i soldi per aiutare la sua famiglia; troppo spesso, nell’ultimo anno, ha lavorato senza essere pagato. Hasan non si sente al sicuro da nessuna parte, neanche a casa sua. Di solito dorme vestito: ci sono alcune bande di criminali che prendono di mira le abitazioni dei migranti e di solito tentano i furti di notte.
Hasan come molti altri ha preso la decisione di attraversare il Mediterraneo e insieme ad altri 16 mila tra il 2020 e i primi mesi del 2021 è stato intercettato dalla guardia costiera libica e riportato indietro. Molti di loro sono finiti nei centri di detenzione. Per le persone come Hasan, la Libia è un paese senza legge.
“Possono ucciderti anche solo per un telefono”
Ho ascoltato molte storie come questa, soprattutto nei quartieri di Tripoli dove migranti e rifugiati tentano invano di vivere vite normali, ma sono sistematicamente presi di mira da criminali e milizie.
Non c’è molto da rubare, ma possono ucciderti anche solo per un telefono. Osman è un giovane ragazzo sorridente. Ha lasciato la Somalia a causa della guerra e, in cerca di un posto sicuro, si è messo in viaggio verso l’Europa. La notte in cui avrebbe dovuto imbarcarsi su un fatiscente barchino a Tripoli, la polizia ha fatto irruzione nel rudere dove i trafficanti gli avevano detto di aspettare.
Per scappare, è caduto dal primo piano; non cammina più da allora. Osman vive in un rifugio degradato nel quartiere di Gargaresh di Tripoli. La sua stanza sembra una piccola caverna buia.
Quando vengono i ladri, tutti quelli che vivono qui scappano. Io posso solo nascondermi sotto le coperte e sperare che non si accorgano di me”.
Migranti irregolari e rifugiati, che non sono riconosciuti dalle autorità libiche, si vedono negato anche il diritto alle cure mediche nel sistema sanitario pubblico. Lo scorso dicembre, pochi giorni prima di Natale, il team medico di MSF ha ricevuto una telefonata dall’Ospedale Universitario di Tripoli: da due giorni c’era una donna nel Pronto Soccorso che aveva ricevuto cure di base ed era stata sottoposta ad alcuni esami, ma i medici non potevano ricoverarla per mancanza di documenti e di parenti prossimi. Hanno chiesto l’aiuto di MSF.
L’abbiamo portata in una clinica privata e trasferita in terapia intensiva quasi immediatamente. Le sue condizioni erano critiche e i nostri medici hanno visto che non si poteva fare molto per salvarla. Dopo pochi giorni, è morta. Non abbiamo mai saputo quale fosse il suo nome né da dove venisse. Non abbiamo potuto neanche avvisare la sua famiglia per dire loro che era morta ed è stato il nostro staff a occuparsi del trasferimento del corpo.
Intrappolati nei centri di detenzione
La prima volta che sono entrata in un centro di detenzione a Tripoli, ho visto qualcosa di familiare. Su una delle pareti dell’hangar utilizzato da Medici Senza Frontiere per le visite mediche erano appesi alcuni adesivi dell’Agenzia Italiana per la Cooperazione Internazionale: “Aiuti 11242/01, Verso un’immigrazione sostenibile”. La mia collega libica ha sorriso quando le ho confidato la vergogna che provavo nel sapere che i soldi dei contribuenti italiani fossero finiti in questo posto.
Siamo entrati nello stanzone che viene utilizzato come cella principale per distribuire Plumpy’Nut, una pasta ad alto contenuto calorico. Di solito la diamo ai bambini malnutriti, ma in Libia la distribuiamo agli adulti nei centri di detenzione da quando i nostri team medici hanno registrato casi di malnutrizione grave in detenzione. Con i supplementi nutritivi speriamo di prevenire che questo accada.
Nella cella c’è poco ossigeno e la luce entra dalle finestre vicino al soffitto, utili solo per far entrare freddo e pioggia. I detenuti sono accovacciati in linea di fronte a me; i talloni non toccano terra, le schiene sono piegate e gli occhi guardano per terra. Ci sono almeno 150 persone, ma sembrano occupare pochissimo spazio. Mentre li guardo, ricordo che qualcuno una volta mi disse che guardare un migrante negli occhi è un gesto molto politico. In quel momento, penso che avesse ragione.
Cos’altro possiamo fare per Idris?
Durante quella prima visita, ho parlato a lungo con un bambino di soli 11 anni, Idris. L’ho visto da lontano, scalzo e infreddolito. Mi ha raccontato di essere arrivato in Libia da pochi mesi con suo zio. Vengono dal Niger, una nazionalità non sotto il mandato dell’Agenzia ONU per i rifugiati (UNHCR).
L’UNHCR riconosce solo nove nazionalità idonee a richiedere protezione internazionale in Libia. Tutte le altre nazionalità rientrano nel mandato dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni, che però ai migranti in detenzione offre solo la possibilità di tornare nel loro paese d’origine.
Idris mi dice che lui e suo zio non vogliono tornare in Niger. Cos’altro possiamo fare? Niente. Diamo al bambino un quaderno e alcune penne colorate. Il meglio che possiamo sperare in questa situazione è che vengano rilasciati, pur sapendo che anche in quel caso Idris non sarebbe al sicuro, ma continuerebbe ad essere esposto ad arresti e detenzioni arbitrarie, tratta di esseri umani, sfruttamento e violenze.
Picchiati, torturati, abbandonati
In un altro centro di detenzione, ho incontrato Sagai, un 27enne etiope.
Sagai è fuggito dall’Etiopia con sei amici; hanno attraversato il deserto ma uno di loro è morto di stenti durante la traversata; hanno dovuto abbandonare il corpo nel deserto, era troppo pesante per poterlo trasportare.
Sono arrivati a Bani Walid, dove hanno incontrato un trafficante che li ha portati a forza in una casa. Sagai mi racconta che sono stati imprigionati nello scantinato per un anno e mezzo. Li hanno filmati ogni giorno mentre venivano picchiati e torturati; i filmati erano per le loro famiglie, per convincerle a mandare i soldi del riscatto. In quel periodo, ha perso la vista da un occhio e ha visto morire un altro dei suoi amici.
Quando la sua famiglia a casa è riuscita a raccogliere 6.000 dollari USA, è stato rilasciato. Una volta a Tripoli, è stato arrestato a un posto di blocco e portato in un centro di detenzione. Sono passati sei mesi, continuano a trasferirlo da un centro all’altro. Ogni volta, spera che lo lasceranno andare.
Molte delle persone con cui ho parlato nei centri di detenzione hanno perso ogni speranza. Si sentono intrappolati in una spirale di sofferenza senza soluzioni. Non possono tornare a casa, non possono restare nel centro di detenzione ed essere trattati in questo modo, non possono restare nell’insicurezza della Libia e non possono arrivare in Europa.
Un giorno ho incontrato un gruppo di sopravvissuti dopo un naufragio al largo di Tripoli. Ho parlato con un uomo che aveva perso suo fratello quella notte.
Per favore, convinci le guardie a lasciarmi chiamare mia madre, sono sicuro che mi creda morto. Devo farle sapere che sono sopravvissuto. “
“Noi non ci stanchiamo”
Nei mesi in cui ho lavorato in Libia mi sono ritrovata a riflettere ripetutamente sulle stesse domande. Cosa ci manca per capire davvero cosa sta succedendo in Libia? Perché quelle sofferenze ci sembrano così lontane e sconosciute da farci credere che non siano una nostra preoccupazione?
Sento spesso dire che molti sono stanchi delle storie dei migranti in Libia. Credo la chiamino “compassion fatigue” [affaticamento da compassione, in una pessima traduzione in italiano]. Non c’è ombra di questa stanchezza nelle nostre équipe mediche, che ogni giorno da anni offrono assistenza e cura ai migranti nei centri di detenzione e nelle comunità di Tripoli. Ogni giorno testimoniano le sofferenze di rifugiati e migranti causate dallo sfruttamento, dalla mancanza di protezione e dall’accesso limitato alle cure sanitarie più elementari.
Durante uno dei giorni più duri a Tripoli, una mia collega non è riuscita a trattenere le lacrime e per scusarsi mi ha detto: “Non ci si abitua mai”. No, non dovremmo.