Lovell e la Principessa, una storia senza lieto fine

Lovell e la Principessa una storia senza lieto fine

Mariatu, Lovell, Mohammed, Fatmata, Issa, Princess… quanti bambini ho visto morire…questi sono solo alcuni nomi dei tanti che io e i miei colleghi abbiamo assistito e cercato invano di salvare nel nostro Centro Ebola a Kailahun, in Sierra Leone.

Molti arrivano al Centro senza genitori, spesso perché sono già morti. Ci affezioniamo subito a loro, li coccoliamo fin dal primo momento e poi spesso, troppo spesso, li accompagniamo alla morte. Ancora non so come riusciamo a sopportare tanta sofferenza e tanto dolore.

Lovell era arrivato da una località distante otto ore di macchina dal Centro, insieme a lui c’era Fatmata, da noi soprannominata “principessa”. Li abbiamo messi nella stessa tenda, lui aveva 7 anni e lei 9. Lovell era il più grave. All’inizio il dolore fisico, la paura e la timidezza lo facevano schivo nei miei confronti, ma con l’esperienza ho imparato a vincere la paura e la timidezza dei bambini.

Tutte le volte che entravo nella tenda gli insegnavo a pronunciare il mio nome, ma senza successo, era troppo difficile per lui pronunciarlo. Principessa, invece, ci provava ma lo storpiava sempre e allora ci ridevamo sopra. Lovell faceva fatica a ridere, il dolore era troppo… un giorno Lovell guardandomi mi dice “Uncle come please”. Quel nome così comune (uncle, zio in inglese) e facile da pronunciare mi è piaciuto fin da subito. Poi gli ho raccontato che fin da quando mio nipote era bambino, gli ho insegnato a chiamarmi per nome e mai “zio” perché mi dà l’idea di persona non più troppo giovane… e quindi Matteo (mio nipote) mi chiama sempre Massimo e mai zio.

Principessa era altissima per la sua età e scherzavo sempre dicendole che da grande avrebbe fatto la modella… Lei rideva con gli occhi chiusi perché la luce le provocava dolore. “You are so beautiful, like a princess” (sei così bella che sembri una principessa) era la frase che a Fatmata piaceva di più. Ed è così che abbiamo iniziato a chiamarla “Princess”.

Il giorno in cui è morta, Principessa mi ha chiesto di portarla fuori dalla tenda, era troppo caldo all’interno. L’ho adagiata sul materassino lungo il corridoio dove i pazienti cercano un po’ di rifugio dal caldo delle tende. Le ho dato un antidolorifico per calmare il dolore e si è addormentata. Dopo qualche ora sono rientrato nell’isolamento e mi sono subito precipitato a vedere come stava. L’ho trovata agonizzante, su un fianco, con la testa inarcata all’indietro e gli occhi sbarrati che fissavano il vuoto.

“Uncle is here Princess, everything will be fine, don’t worry”. La mia paura era che potesse rendersi conto che stava morendo e senza nessuno al suo fianco. Ho chiamato la mia collega Kate e siamo rimasti lì a farle compagnia, stringendole le manine e accarezzandole la testa. Il respiro si è fatto sempre più debole. Gli occhi sbarrati hanno iniziato a chiudersi… “You are so beautiful Princess, we love you” (sei bellissima Principessa, ti vogliamo bene). Non era più necessario fingere e sforzarsi di trattenere il dolore, Principessa era morta e con lei tutti i suoi sogni di bambina.

Lovell, che sembrava il più grave dei due, era ancora nel suo letto, debole ma vivo. Con uno sforzo credo grande, ha aperto appena gli occhi. “Hi Lovell, uncle is here, do you need anything?” con un cenno lieve della testa mi fa capire di no. Cercava a fatica di sollevare la mano… voleva che gli dessi la mia. Ormai l’esperienza mi ha insegnato a capire quali sono i momenti che precedono la morte e così sono rimasto lì a parlargli. Scherzavo sul fatto che lui, che non era mio nipote poteva chiamarmi “uncle” e il mio vero nipote invece no… sorrideva sempre quando glielo dicevo. “It’s impossible not to love someone whose name is Lovell… am I right Lovell???” Anche questa era una frase che lo divertiva molto, e lui rispondeva “You are right uncle”. Questa volta, però, non c’è stata risposta, il suo cuoricino ha smesso di battere prima che mi potesse rispondere.

È una sensazione strana quella che si prova quando si accarezzano le mani di un bambino che sta per morire: in quegli istanti  che sembrano durare un’eternità, senti un’energia dentro fortissima e non capisci da dove nasca. Ti meravigli di non piangere. Sai che stai facendo la cosa più giusta per quel bambino e non pensi ad altro che a lui.
Poi, ti risvegli all’improvviso come da un incantesimo, da solo in una tenda di un Centro di trattamento Ebola, con il corpo di un bambino di appena 7 anni. Il dolore che ti sembrava di non sentire più ritorna e ritorna la rabbia e la voglia di urlare e di piangere.

Anche se il dolore provato è stato tanto, sono contento che sia toccato a me l’onore di aver regalato a Lovell, Principessa e tutti gli altri bambini l’ultima carezza che sono sicuro abbia riscaldato i loro cuori e abbia dato coraggio quando è arrivato il momento della paura e del buio.

Massimo, infermiere MSF, Sierra Leone