Mi chiamo Samar, sono originaria della Ghuta orientale e sono promotrice della salute di Medici Senza Frontiere nella Siria Nord-occidentale.
Quando c’è stata la prima scossa di terremoto ero a casa ad A’zaz con mio marito e i miei figli, un bambino e una bambina. Stavamo dormendo. Mio marito ha sentito la prima scossa e mi ha svegliata. Ho afferrato mia figlia, lui ha afferrato l’altro nostro figlio. Siamo scappati fuori di corsa, in pigiama, a piedi nudi, terrorizzati. Sembrava la fine del mondo. La gente si accalcava, la folla correva. Provavamo soltanto panico, terrore, brividi e freddo per la pioggia.
I bambini tremavano sotto i miei occhi. Non avevamo idea di quello che dovevamo fare. Allontanarci dagli edifici o dirigerci verso l’aperta campagna? Dovevamo accertarci che i nostri parenti fossero in salvo, ma la nostra casa stava per crollare, ondeggiava davanti a noi. Provavamo tante sensazioni diverse.
La gente abbandonava gli edifici e si allontanava in macchina. Si dirigevano tutti verso l’aperta campagna. I palazzi oscillavano, i balconi si staccavano precipitavano sulle automobili, distruggendole. La scena era apocalittica: tutti scappavano dalle case tenendo in braccio i loro bambini.
Siamo fuggiti senza niente. Uscendo di casa ho afferrato soltanto la veste cerimoniale che a casa non mettevo mai. Soltanto dopo ci siamo ricordati che possediamo una macchina e, una volta passate le scosse, mio marito è andato a prenderla per proteggerci dalla pioggia.
Abbiamo preso anche i cappotti nostri e dei bambini. Ci siamo allontanati in macchina e abbiamo aspettato. Abbiamo continuato a sentire le scosse di assestamento per tutta la notte, fino all’alba. Poi la mia famiglia ha telefonato da Damasco per chiederci se stessimo bene. La famiglia di mio zio non ce l’ha fatta, sono morti. Io non lo sapevo.
Non c’erano più né internet né l’elettricità. A stento siamo riusciti a telefonare per avere notizie dai nostri conoscenti. Fino alle 9 del mattino, però, non siamo riusciti a sapere niente. Ho detto a mio marito che avremmo dovuto andare a Jindires, l’area più colpita insieme a quella di Arab e alla periferia di Idlib. Gli ho detto che dovevamo andare lì perché lì sono morte moltissime persone.
A Jindires vivevano tutti i miei concittadini. Ci siamo preparati e dopo un quarto d’ora siamo partiti con i bambini. Non potevamo attendere oltre, perché non sapevamo quello che sarebbe potuto succedere. Ci siamo cambiati perché i nostri vestiti erano ricoperti di fango e fradici di pioggia. Ci siamo diretti a Jindires. Quando siamo arrivati, abbiamo visto che tutti gli edifici della città erano crollati. Dalla periferia al centro non ne è stato risparmiato nemmeno uno. Gli abitanti erano sotto le macerie. Erano tutti morti.
Ci siamo diretti dove c’era la casa di mio zio, ma abbiamo potuto avvicinarci soltanto con grande fatica a causa dei detriti ovunque. La figlia di mia nipote, sua sorella, le loro zie e cognate, i nostri parenti: sono tutti morti. Una madre ha perso conoscenza e la ragione dopo la morte della figlia. Poi abbiamo avvertito un’altra scossa e abbiamo visto l’edificio davanti a noi ondeggiare, quasi accasciarsi. Ho supplicato i miei parenti di allontanarsi. Siamo entrati tutti in macchina e ci siamo allontanati, dirigendoci dove c’erano tende e persone che conoscevamo. Siamo entrati in una tenda, sotto la pioggia scrosciante e nel fango, e ci siamo seduti. Dovevamo stare al sicuro.
Molti genitori stavano seppellendo i loro figli. Altri erano sotto le macerie. Nessuna famiglia è stata risparmiata. Tutte hanno perso almeno uno dei loro cari o più. Ci vuole tempo per estrarre la gente da sotto i cumuli di rovine. C’erano pochissimi mezzi pesanti, abbiamo visto al lavoro soltanto singoli individui.
Mio marito si è precipitato a dare una mano alla protezione civile, per scavare ed estrarre persone. Ci va ogni giorno e anche i nostri amici fanno altrettanto.
I team di Medici Senza Frontiere, che io coordino, stanno sostenendo la popolazione anche a Jindires. Tutti hanno qualche parente lì e, anche se non ce l’hanno, vanno a prestare soccorso e a setacciare le rovine, perché non c’è nessun altro a farlo. I macchinari pesanti sono davvero pochi al Nord, e non riescono a coprire Jindires, Aleppo, Atarib, Maharem, Termanin e altre regioni ancora. Alle due siamo arrivati ad Afrin, e siamo stati accolti nella casa di un parente. Mio marito va a Jindires tutti i giorni.
Un altro team di MSF ha distribuito cibo, kit igienici, tende e vestiti a Jindires. Hanno lavorato fino a tarda notte. Io non ho potuto aiutarli o contribuire in alcun modo perché sono sola con i bambini, lontana da casa.
Sono ancora sconvolta. Non riesco a capacitarmi di quello che è successo. Mi rendo conto che il disastro è ancora in corso e non riesco a pensare di poter tornare a casa. Mio marito sta provando a convincermi, perché molta gente lo ha già fatto. Ma a me manca il coraggio.
Ieri siamo andati in ospedale. Nella famiglia dell’amico di mio marito sono morti tutti, a eccezione di una bambina. Siamo andati a trovarla in ospedale. Ci ha detto che scappando si erano dati appuntamento in un posto preciso. Lei si è diretta alla porta insieme a suo fratello, seguita dalla sorellina più piccola. Il soffitto ha ceduto ed è crollato sul loro papà. Lo ha sentito pronunciare le sue ultime parole prima di morire.
«Quando è crollato tutto, mia sorella è finita sotto di me. È soffocata per colpa mia», ha detto piangendo. «Mia sorella Tala è morta per causa mia. Mi gridava di spostarmi, ma io non potevo muovermi per le macerie sulla schiena». I detriti poi sono caduti e hanno amputato la gamba del fratello. Lei si è fratturata entrambe le gambe. Ho dovuto ricorrere a tutte le mie forze per assistere a tanta sofferenza.
Ci sono moltissime cose da fare. Tutto ciò che sta a cuore alla gente adesso è salvare chi è vivo e si trova ancora sotto le macerie. Per salvare vite umane, però, occorrono ruspe e macchinari pesanti, altrimenti non sarà possibile. Fa molto freddo e piove. Tutti hanno perso tutto, i vestiti e i soldi. Nessuno può comprare di che coprirsi e riscaldarsi o un riparo. Le abitazioni sono distrutte e le famiglie si sono trasferite nelle moschee, nelle scuole e nelle tende. Alcune associazioni umanitarie stanno lavorando sul terreno, ma le necessità sono infinite.
Ho visto soltanto Medici Senza Frontiere distribuire beni alla popolazione. Non so se nella regione stiano lavorando anche altre organizzazioni internazionali. Per il resto, ogni tipo di aiuto arriva dai singoli, tramite volontari. Le persone si aiutano a vicenda. Alcuni raccolgono donazioni dall’estero. Si tratta sempre, però, di iniziative a livello individuale. Gli Stati non sono intervenuti. C’è chi raccoglie donazioni da conoscenti all’estero.
Dopo che le loro abitazioni sono state distrutte, alcune persone sono andate a casa di parenti. Chi non ha parenti ha trovato ospitalità nelle tende o è stato accolto da altri. Il primo giorno, alcuni hanno accolto noi e ci hanno dato da mangiare. Molte persone si riparano nelle tende montate lontano dagli edifici o all’interno di palazzi di un solo piano.
Io mi auguro che la risposta al terremoto si intensifichi e che da sotto le macerie possano essere estratte altre persone vive. Mi auguro anche che chi è morto possa essere sepolto. Bisogna fare davvero tanto, perché l’area è stata completamente distrutta. Forse, uno o due edifici sono ancora in piedi, ma sono gravemente danneggiati e potrebbero crollare da un momento all’altro.