Sono al Policlinico di Palermo, dove Medici Senza Frontiere (MSF) assiste insieme allo staff dell’ospedale le persone sopravvissute a tortura, perlopiù nei centri di detenzione libici.
Entro nella stanza dove faremo la prima visita: è qui che lo incontro per la prima volta. Quando Ahmed entra nella stanza, non incrocio subito i suoi occhi. Guarda fisso in basso. Mi colpisce la sua età, è così giovane. Si siede. L’inizio è sempre un momento molto delicato. Bisogna cercare di instaurare una relazione di fiducia con chi, invece, ha perso completamente ogni briciolo di fiducia negli esseri umani. Pian piano inizia a raccontare. Parla della sua famiglia, del suo viaggio.
Mentre lo ascolto, guardo la sua mano. Da quando è entrato, l’ha sempre tenuta sul collo. Sento che nasconde qualcosa di pesante.
I momenti in cui Youssoufa, il nostro mediatore interculturale, traduce, danno ad Ahmed il tempo per riprendere fiato. È una pausa di cui sono grata, perché capisco quanto sia duro per lui raccontare. Quanto faccia male ripetere a voce alta una storia che si vorrebbe cancellare o, perlomeno, dimenticare.
Finalmente i nostri occhi si incrociano. Mi sembra che accenni un sorriso. E allora trovo la forza di chiederglielo, cercando di farlo nel modo più delicato possibile.
“Ti fa male il collo?”. “Sì”.
“Sono una dottoressa, posso vederlo?”. Lentamente scosta la mano e scopre una lunga e profonda cicatrice. Non è una ferita aperta, la pelle si è chiusa, strato su strato, per seppellire un dolore.
La cicatrice ha chiuso la ferita, ma non l’ha nascosta. Ha fermato il sangue, ma non ha cancellato il dolore. Quella cicatrice rimane lì sul collo a ricordargli in ogni momento quello che ha subito.
“Se vuoi possiamo farla vedere a un chirurgo per cercare di ridurla. Possiamo darti dei farmaci per il dolore. Se vuoi, siamo qui per aiutarti a riprendere la tua strada”.
Forse il chirurgo riuscirà a ridurre la cicatrice sul collo, penso in quel momento. Ma le altre cicatrici, quelle che si porta dentro, sono impossibili da rimarginare. La violenza di chi gli ha inflitto quel dolore gli rimane impressa nei nervi e nella memoria. Per certe cicatrici ci vorrà molto tempo, per altre il tempo non basta, non guariranno mai. Cerchiamo almeno di aiutarlo perché riesca a conviverci.
Quando ho letto del rilascio del torturatore Almasri accompagnato in Libia con un volo di stato italiano, ho pensato subito, istintivamente, a questo ragazzo, alla sua cicatrice. Almasri è accusato di crimini contro l’umanità e crimini di guerra, tra cui omicidi, torture, stupri e violenze sessuali, commessi nelle prigioni libiche.
Almasri non è diverso dal torturatore di Ahmed.
Di fatto, l’Italia ha scelto di ignorare il vissuto di persone che hanno subito ingiustizie indicibili. Questa scelta conferma, inoltre, la volontà delle nostre istituzioni di garantire impunità alle autorità libiche. Non so se abbia prevalso in me il dolore o la rabbia per l’ennesima ingiustizia inflitta deliberatamente alle persone sopravvissute a tortura. Ho visto coi miei occhi come vengono ridotte: sono brandelli umani che spesso oltre alla violenza su di loro hanno vissuto anche la perdita di persone care che non ce l’hanno fatta a resistere.
Il rimpatrio di Almasri è l’ennesima violazione della dignità delle persone in movimento, che fuggono dai propri paesi per cercare altrove un posto più sicuro e trovano ad attenderli torturatori come Almasri, che il nostro governo continua a proteggere e finanziare.
La tortura si imprime dovunque, non solo sui corpi. Per me la tortura ha la forma aberrante della cicatrice sul collo di quel ragazzo.