Mi trovo nel distretto di Cox Bazar, in Bangladesh, e mi occupo di gestire le attività legate al funzionamento della rete idrica e dei servizi sanitari all’interno del campo allestito per i rifugiati Rohingya in fuga dal Myanmar.
Sono molto orgoglioso di quello che stiamo facendo qui, perché so che le nostre opere di captazione e distribuzione di acqua potabile serviranno decine di migliaia di rifugiati. E vedo con i miei occhi come questo nostro progetto cresce, di giorno in giorno. Da novembre, quando sono arrivato, abbiamo messo in funzione già due impianti, con cinquanta fontane.
Passo almeno metà delle mie giornate tra i rifugiati, addentrandomi negli angoli più improbabili del campo per trovare il posto ideale per la prossima fontana, per un serbatoio nuovo, un pozzo per captare l’acqua. E questo, per me, è un privilegio.
Ogni settimana arrivano nuove richieste di persone che vorrebbero aggiungere una fontana nella propria area. Queste persone ci conoscono, ci vedono tutti i giorni e conoscono il nostro lavoro.
In queste stradine infangate, tra le capanne di bambù e teli di nylon, si legge la sofferenza negli occhi della gente, soprattutto degli anziani. Ma si legge anche tanta speranza, e voglia di vivere. Tanti bambini sorridono. Sono curiosi e mi salutano, io rispondo con un sorriso, il linguaggio più semplice che conosco, e vado avanti.