Lavoro per MSF dal 2019 e, dopo 9 mesi di missione in Palestina, sono stato chiamato a dare il mio contributo a Malakal, in Sud Sudan, come responsabile del Dipartimento di Salute Mentale.
Qui gestiamo due ospedali, uno nella città e un altro poco distante nel campo di Protezione dei Civili. Qui trovano rifugio le vittime di una guerra civile che ha portato morte, desolazione e disperazione tra i superstiti costretti ad adattarsi a condizioni di vita estreme e piene di sacrifici.
La storia di Samson
Samson è un uomo di 36 anni, già da tempo affetto da schizofrenia paranoide che, a causa dell’assenza di cure adeguate, si è periodicamente aggravata portandolo a essere aggressivo e pericoloso. L’ho conosciuto proprio durante una di queste crisi. È arrivato nel nostro Pronto Soccorso legato con una catena e con 5/6 uomini che cercavano di contenerlo, tra le urla e l’agitazione dei presenti.
Il giorno successivo era ancora visibilmente aggressivo e delirante. Mi sono avvicinato a lui chiedendogli se si ricordasse di me. “Tu sei il dottore italiano”, mi ha risposto.
Gli ho domandato come mai fosse arrabbiato. Samson ha iniziato a raccontarmi della sua vita, di quello che faceva e di quello che era diventato prima della guerra civile. Mi ha raccontato di tutto quello che aveva perso e di come le cose si fossero complicate giorno dopo giorno. L’ho ascoltato e piano piano la sua rabbia sembrava svanire.
Mi ha raccontato che vivere in un campo è difficile, che non avere nulla da mangiare, non avere un futuro o la certezza del domani è come morire lentamente ogni giorno. A Malakal si muore per tutto: si muore di malaria, per una diarrea, si muore di fame.
Il mese successivo al suo ingresso Samson ha lasciato il campo di protezione per raggiungere il Sudan in cerca di una vita migliore. Qualcosa, però, è andato storto.
È stato assalito da un gruppo di uomini, gli hanno rubato i pochi soldi che aveva con sé per il viaggio e lo hanno bastonato ripetutamente. Non ha mai raggiunto il Sudan e, per un po’, non si è fatto vedere neanche nel campo.
Vittima dell’incoscienza umana
La notte del 25 dicembre sono stato chiamato per un’emergenza: un uomo armato di coltello aggrediva i passanti e aveva assalito un’auto delle Nazioni Unite. Con lo psichiatra Roberto abbiamo raggiunto il nostro ospedale in attesa che la polizia del campo intervenisse per scortare l’uomo armato.
Quella notte, ogni persona che incontravamo aggiungeva dettagli sulla forza bruta di Samson, sulla sua aggressività, su ciò che era capace di fare, alimentando il clima di paura intorno a un povero uomo vittima dell’incoscienza umana di ricorrere alla guerra per risolvere i problemi.
La luna era alta nel cielo, un cielo scuro, appena illuminato dalle lampadine del nostro ospedale. Tutto attorno strade impolverate, brusio di gente e grida di bambini: Samson stava arrivando.
Tutti i presenti si sono ritirati nelle proprie case di lamiera e io e lo psichiatra ci siamo affrettati a raggiungere il cancello dell’ospedale. Il chiarore della luna faceva intravedere una figura enorme, seppur distante, che camminava lenta e con passo pesante. Intorno al nostro uomo un vuoto quasi surreale.
Samson si è avvicinato lentamente e in cuor mio speravo potesse riconoscermi, accettare il mio aiuto e accettare il ricovero nella nostra struttura. Ho chiesto di far aprire il cancello, tra gli sguardi sgomenti dei presenti. Dopo una breve esitazione, mi hanno lasciato passare per andare incontro al gigante.
Vicino a lui, gli ho stretto le mani: “Samson, da quanto tempo che non ti vedo!”. Lui mi ha guardato per qualche interminabile secondo e tra un respiro e l’altro finalmente mi ha detto: “Fratello mio, sono felice di vederti”. Era una felicità ben mascherata. Il suo volto era quello di un uomo profondamente arrabbiato e confuso. L’ho accompagnato nel nostro reparto.
Dall’altra parte del cancello
Trascorsi i giorni Samson ha iniziato a sorridere, a chiedere di condividere il tè mentre raccontava il suo passato e le sue vicende. Le persone si avvicinavano a lui stringendogli le mani e intrattenendo piacevoli conversazioni.
Con il passare del tempo, Samson è diventato nuovamente parte di quella comunità ancora troppo spaventata. Non solo dalla guerra, dalla violenza, dalla fame ma, anche, da quei misteri che si nascondono dietro la salute mentale.
Come Samson, tanti altri ogni giorno vengono discriminati e allontanati perché affetti da disturbi mentali e perché troppi sono ancora i pregiudizi, le paure, la disinformazione attorno alla salute mentale.
Ancora oggi la depressione è la maggiore causa di morte nel mondo, la psicosi resta ancora un mistero e l’intervento psicologico uno sconosciuto che fa storcere il naso ai più. Ciò che è avvenuto quel 25 dicembre, a Malakal, era solo un pezzetto di quell’intervento psicologico che ha permesso a terapeuta e paziente di entrare in relazione reciproca e che ha permesso a Samson di ritrovare una parte di sé dall’altra parte del cancello.
Non c’è salute senza salute mentale.