Tommaso Fabbri

Tommaso Fabbri

Capomissione MSF
Sette anni nel limbo

Ricordo bene quella notte. Eravamo nel mezzo del Mediterraneo. Non si vedeva nulla. Il cielo e il mare formavano un’unica tela nera.

E poi, nell’oscurità, li abbiamo visti: circa 100 persone, pericolosamente stipate su un gommone destinato a non più di 20, alcune già cadute in mare e aggrappate ai tubolari. Dietro di loro è comparsa un’altra barca, e poi un’altra ancora. Era il 2016 e facevo parte del team medico-umanitario a bordo di una nave di ricerca e soccorso di MSF.

Alle 11 del mattino dopo, avevamo soccorso più di 1.100 persone, alcune disidratate, ustionate dal carburante, segnate dalle cicatrici delle torture, ma tutte sollevate per essere state soccorse, per essere vive. Ho capito che ero semplicemente dove dovevo essere.

Eppure, nel 2021 mentre continuavo la mia attività con MSF e coordinavo un progetto per il trattamento del COVID dedicato agli anziani, ho ricevuto una telefonata inaspettata dalla polizia. Mi sono sentito in un mondo al contrario: ero indagato per aver soccorso persone in pericolo mentre ero a bordo della Vos Prudence di MSF nel 2017, per avere fatto il mio lavoro.

Non ero l’unico. Il processo avviato dalle autorità italiane coinvolgeva anche persone di altre organizzazioni. Se giudicati colpevoli, ognuno di noi rischiava fino a 20 anni di carcere. Non ero preoccupato per la mia reputazione o per quella di MSF, perché ero certo che avevamo sempre lavorato in piena trasparenza, in coordinamento con la Guardia Costiera italiana e con tutte le autorità competenti.

Ma non riuscivo a cancellare la preoccupazione per le implicazioni più ampie di questo caso, il potenziale impatto sulle operazioni di ricerca e soccorso e, soprattutto, per le persone che cercano sicurezza rischiando la propria vita in mare.

I miei timori non erano infondati. Dal 2017, avevamo notato un netto cambio di approccio da parte delle autorità italiane ed europee riguardo al soccorso in mare. Il governo italiano, esponenti politici di ogni schieramento, rappresentanti istituzionali italiani ed europei avevano iniziato ad accusare le ONG di favorire l’“immigrazione clandestina” attraverso il Mediterraneo.

Oggi il caso contro di me e gli altri operatori coinvolti è stato archiviato. Ma durante i sette anni necessari per arrivare a questa decisione, il governo italiano ha investito enormi risorse in politiche dalle conseguenze tragiche. Ha eretto una barriera dopo l’altra all’azione umanitaria, invece di impedire i naufragi e aprire canali legali e sicuri per le persone in fuga attraverso il Mediterraneo.

L’imperativo umanitario di salvare vite è stato schiacciato dal tentativo di fermare la migrazione ad ogni costo. Le navi civili devono rientrare a terra dopo ogni imbarcazione soccorsa e il porto assegnato è sempre lontano, il tutto per tenerle lontane dalla zona dei soccorsi. Nel frattempo, soccorritori e ONG continuano a essere ostacolati mentre le navi subiscono fermi arbitrari.

Salvare vite non è un reato; è un obbligo morale e legale, un atto fondamentale di umanità. Spero che l’esito di questo caso invii un messaggio forte e chiaro a qualsiasi governo: smettete di criminalizzare la solidarietà! Come operatori umanitari dobbiamo continuare a svolgere il nostro lavoro ovunque sia necessario: nelle zone di conflitto, nelle epidemie o per prevenire inaccettabili morti e sofferenze nel mare nostro.