Medici Senza Frontiere è per me nuove dimore, nuovi occhi, nuovi legami; emozioni, percezioni e sensazioni così diverse che a volte sembra impossibile tenerle insieme. È un complesso ma meraviglioso lavoro.
Ricordo la mia prima dimora durante la prima missione: un compound nella folta foresta della Repubblica Democratica del Congo, nel Nord Kivu. Intorno scimmie, serpenti, babbuini e i rari okapi; villaggi di terra e strade dissestate; il sole che picchiava forte e la pioggia incessante.
I protocolli di sicurezza imponevano un coprifuoco alle 18. Si usciva per lavorare e si rientrava alla base. Nessuna passeggiata in città, nessun luogo consentito fuori dalla base dopo il lavoro, gli unici spostamenti possibili erano verso i nostri centri di salute. Duro il primo impatto.
“Il corpo accusa il colpo” scriveva qualcuno. Già, l’individuo come la comunità.
Quando un popolo attraversa epidemie, genocidi, fame, e vive sotto la minaccia costante di gruppi armati e della perdita delle proprie ricche risorse, ecco che una ferita si radica nei corpi, nella voce, nello sguardo e, talvolta, anche nei sorrisi.
Il progetto di MSF in Repubblica Democratica del Congo era rivolto alla cura medica e psicologica delle persone vittime di violenza sessuale. Le ferite di coloro che arrivavano ai centri di salute erano talvolta silenziose e talvolta raccontate, attuali o antiche, ma pur sempre profondamente visibili. Donne, bambini e qualche volta uomini. Il dolore, la vergogna, la sofferenza dinnanzi alla violenza non conoscono frontiere.
Le ferite invece si inscrivono nella storia di ciascuno, lasciando una traccia che prenderà per ognuno una forma diversa. Ci sono ferite che si lasciano curare, consolare, altre che hanno bisogno solo di una presenza silenziosa accanto, tanto è profondo il dolore. Durante le missioni sento le ferite delle persone con tutti i sensi: gli occhi, le orecchie, il cuore e la mente.
A volte la ferita provata, insieme alla silenziosa presenza di chi l’ascolta, può diventare una traccia meno dolorosa, una finestra verso qualcosa di diverso.
C’è chi si chiudeva in un accorato silenzio durante le sessioni di supporto, eppure tornava ancora, magari dopo tanti giorni, perché le strade da percorrere per raggiungere i centri di cura spesso sono distanti e pericolose. C’è chi invece raccontava con rabbia e rassegnazione il proprio dolore, come se non ci fosse altro che quella realtà.
Colori nuovi
L’impatto con una terra così sofferente, in questa prima missione, è stato frastornante. Solo giorno dopo giorno, il terreno ha assunto colori nuovi: attraverso le storie dei colleghi locali, una maggiore conoscenza delle tradizioni, la comprensione dei canti, della danza, delle leggende e attraverso gli incontri con alcuni guaritori tradizionali è stato possibile scorgere nuovi aspetti di quella terra bella e piena di risorse ma assai complessa e addolorata.
Alla base e nei centri di salute lavoravamo con tutte le energie possibili, con il desiderio di lasciare un contributo. Un’équipe formata da persone provenienti da ogni parte della nostra terra: Brasile, Mali, Spagna, Francia, Burkina Faso, Svizzera, Olanda, Québec, Romania, Italia.
Ognuno con le proprie competenze, con la propria cultura, ognuno con il suo credo, con la sua famiglia e i suoi legami. Assai diversi ma con un fondo e verso un obiettivo comune. La cura dei pazienti. L’alleviamento della sofferenza.
In quel luogo e in quel tempo, il valore e la forza dell’équipe è stata per me una straordinaria risorsa. Ogni giorno, insieme, ventiquattr’ore. Ho visto colleghi arrivare. Altri partire. Alcuni essere lì prima di me. Altri sono rimasti dopo di me. Nulla di più bello di una équipe multiculturale che riesce a danzare nell’assenza di spazio.
Forse noi operatori umanitari siamo un po’ così, come gli acrobati. Ci teniamo. Ci separiamo. Ci supportiamo. Ci lasciamo. Ci ritroviamo ancora. In un altro luogo. In un altro tempo. In un’altra missione.
Oggi Medici Senza Frontiere è per me un acrobatico equilibrio – pronta ad esserci per offrire cure e alleviare ferite. Pronta ad esserci ma anche pronta a lasciare che pazienti e popoli ritrovino le loro risorse.