Sono appena tornata dalla mia ultima missione nella regione del Nord Kivu, nell’Est della Repubblica Democratica del Congo. Missione Ebola. La più grande epidemia di Ebola del Paese, un triste primato. Missione Ebola in una regione da anni martoriata da massacri ad opera di gruppi armati.
Oggi la popolazione si ritrova a vivere un ennesimo massacro. Lo chiamano proprio così. Fino a ieri si rischiava di morire sotto i colpi di machete. Oggi, oltre a quel rischio, se ne è insinuato un altro. Invisibile. Eppure letale come il machete più affilato.
Un nuovo ruolo
Per la prima volta sono partita nella posizione di coordinatrice medica. Non ho lavorato in un progetto ma ne ho coordinati diversi. Non ho conosciuto i dettagli di ogni centro, ma con la carta del Nord Kivu sempre davanti agli occhi, ho seguito lo sviluppo dell’epidemia per proporre interventi il più veloci possibili, per arrestarla o almeno contenerla.
Nei primi giorni non sono entrata nei centri con lo scafandro ma con rapporti, telefonate, e-mail che si susseguivano incessantemente. Al posto delle riunioni cliniche ho incontrato quotidianamente gli attori coinvolti nella risposta all’epidemia, per cercare di coordinarci in modo sinergico ed efficace.
È stato strano per me non conoscere il volto dei pazienti ma il loro codice. Ho cercato comunque sempre di saperne almeno il nome e l’età (oltre alla loro terapia, il dosaggio, gli effetti collaterali). Volevo che questi codici avessero un nome per me quando mi comunicavano l’esito della terapia, se ce l’avevano fatta oppure no.
Subito dopo aver inquadrato l’andamento dell’epidemia e del contesto, ho fatto il giro dei progetti per vederli di persona, per capirli dal vivo, per dare un volto ai rapporti e ai numeri. Mi sono vestita per entrare nella zona ad alto rischio, con gesti ormai divenuti automatici, anche se non li facevo da un po’.
Una volta vestita con la protezione totale, la coordinatrice del progetto, che si è vestita per entrare con me, mi ha detto: “Ora ci possiamo abbracciare”. È vero, nei progetti Ebola vige la “No Touch policy”. Non ci possiamo toccare. Non ci si dà la mano, non ci si sfiora, tanto meno ci si abbraccia. L’unico momento in cui si può è proprio all’interno del centro con la protezione totale.
L’epidemia che colpisce i bambini
Uno dei giorni più duri è stato quello in cui il primo messaggio della giornata mi annunciava la morte di Ddjojio, una bambina di 7 anni che ha lottato per 10 giorni come un leone.
Quella mattina il mio pensiero è andato al villaggio di Mangina, al nostro centro e alla tenda di Ddjojio, il piccolo leone che non ce l’ha fatta.
In questa epidemia sono molti i bambini colpiti. Una settimana c’è stata una strana, triste coincidenza: 3 neonati sono stati ricoverati nei nostri centri lo stesso giorno, in 3 diverse città (Beni, Butembo, Mangina). Le 3 mamme sono morte prima che i loro figli compissero 2 settimane.
Quei 3 piccoli corpicini erano ancora vivi, circondati da esseri in tute gialle e maschere che si prendevano cura di loro. La loro normalità era un mondo senza volti e un intenso odore di cloro.
Abbiamo tentato tutto. Gli operatori sono entrati giorno e notte per fare il possibile, cercando di dimenticare la morte delle madri. Non è stato facile perché sono morte di fronte a noi. Le abbiamo accompagnate fino alla fine. Il loro letto vuoto era ancora di fronte a noi. Il cloro ha cancellato il sangue, ma non il ricordo dei loro volti.
Cercando di non pensare alle statistiche che li davano per spacciati al 99%, ci siamo concentrati sui piccoli gesti che forse non salvano vite ma fanno la differenza, anche solo per un giorno, un’ora, un minuto.
Non avrei potuto immaginare che due di loro ne sarebbero usciti guariti. Christian, invece, non ce l’ha fatta.
Combattere Ebola in un clima di paura
L’epidemia, che sembrava alla fine, purtroppo si sta riaccendendo, con tutte le tensioni che vanno ad aggiungersi a quelle di un paese in guerriglia alla vigilia delle elezioni presidenziali, a un clima di sfiducia e di paura della popolazione.
Per quelli di noi che hanno lavorato nell’epidemia dell’Africa occidentale 2014-2015, è ben viva la paura che questa in Repubblica Democratica del Congo evolva allo stesso modo. La speranza è che non succeda.
Ci sono tante difficoltà che si aggiungono a quelle di una “normale” epidemia di Ebola.
Ma anche questa volta c’è la forza di questi team, composti dalle persone più diverse, dalle origini più disparate, ma con la stessa voglia di esserci, senza sabato né domenica, dimenticandosi anche di mangiare nei giorni troppo pieni.
Per frenare quest’epidemia. Perché non muoiano altre Ddjojo e altri Christian.