Studi in geopolitica, analisi di psicopatologia delle masse, ricerche antropologiche, lavori in contesti ad alto rischio, non sono sufficienti a darmi comprensione dell’inutilità e della mostruosità della guerra.
In Yemen, a Taiz- Houban, MSF gestisce un ospedale in una città (o meglio parte della città) in cui il popolo è terribilmente stanco da quelle che vengono chiamate geopolitiche internazionali.
Un neonato che non ha il tempo di venire al mondo, perché la guerra non gli dona il tempo di formarsi, non conosce la geopolitica internazionale e forse non ne vuole neanche sapere, magari vorrebbe solo nascere.
Un medico che vede il suo paese affondare è affaticato dalle negoziazioni internazionali, da un “cessate il fuoco” a cui seguono puntualmente nuovi attacchi, vorrebbe solo fare il suo lavoro: prendersi cura dei pazienti, senza temere che dall’altra parte della città un missile possa arrivare sulla sua famiglia.
Uno psicologo vorrebbe prendersi cura delle ferite dell’animo umano e di fronte a chi non può tornare in ospedale perché a volte attraversare le strade è più pericoloso che restare con le proprie angosce nel proprio villaggio, può fare forse poco. Semplicemente esserci con il più profondo ascolto e rispetto in quel poco tempo che la guerra concede per l’incontro. Ma, in quel poco, in quel lavoro nel margine temporale e fisico, si sta per l’altro, si incontra appieno l’Altro. E allora il poco può diventare abbastanza.
Giovani quasi laureati vorrebbero proseguire gli studi ma non possono perché l’università è stata bombardata. E, allora, attendono con pazienza e fiducia che il fuoco cessi e la vita riprenda. Quanta forza e speranza possiedono nei loro spiriti.
E io imparo con loro a sperare in mezzo a tutto questo. A pazientare come mai prima. Eppure il mio mestiere di psicoterapeuta italiana credevo mi avesse insegnato a pazientare. Qui riscopro una nuova attesa, il possibile nel margine, l’azione lenta e pregnante, la forza sotto altre vesti. Sotto i niqāb, potremmo anche dire.
Intere famiglie vorrebbero riunirsi ad amici e parenti dall’altra parte della frontline, l’obbligata separazione è conseguenza dell’impossibilità ad attraversare la città. La tragedia del muro di Berlino credevo appartenesse ad una brutta storia passata: oggi la vivo qui, ogni giorno, negli occhi dei pazienti, dei colleghi.
Non si può andare dall’altra parte della città. La città, Taiz, che se cercate sul web appare un luogo da “Le mille e una notte”, è divisa in due come vogliono ancora le strategie geopolitiche internazionali. Due monete, due governi, famiglie divise, fiumi di rifugiati, da una parte all’altra.
Questa è la guerra. Dal 2015.
Bambini con fucili in mano, più grandi delle loro braccia, a controllo dei check point, con gli occhi senza più speranza e la bocca piena di Qat, per non sentire troppo ciò che accade. La guerra li vuole tiranni, ma restano pur sempre bambini. E là un sussulto di rabbia mi attraversa. No, continuo a non capirla, la guerra.
Matrimoni forzati in questo luogo, un tempo già precario, ma dove oggi la guerra impedisce ancor di più la cultura e senza cultura la vita si presta ad essere una obbedienza dolorosa. Abusi silenziosi. Strade afflitte dai colpi di arma da fuoco. Lacrime coperte dai veli ma assolutamente visibili ad un occhio disponibile. La colpa di non riuscire a proteggere chi si ama. L’isolamento geografico che non permette di chiedere aiuto, la paura di chiedere aiuto. La mancanza di risorse tanto esterne quanto interne.
I miei colleghi mi raccontano la vita prima della guerra. Ricordare il tempo della pace fa bene allo spirito. Di tutti. Mi dicono che lo Yemen è un paese cordiale, educato, aperto all’altro mentre ora agli occhi di tutti appare solo un luogo di macerie e orrore, e soffrono per questo. Vorrebbero tornare ad accogliere lo straniero, come prima.
Per questo popolo l’ospite è sacro, lo straniero accolto. A dispetto delle scelte ancora geopolitiche che vorrebbero certi Occidentali come taluni Orientali, nemici di questo popolo.
Io la sento sottopelle la bellezza di questa terra. L’ospedale in cui viviamo e lavoriamo, è stato recuperato da un vecchio hotel. In queste stanze, in cui lavoro e da cui sto scrivendo, riesco ancora a sentire quel tempo in cui i viaggiatori venivamo ad esplorare questo medio Oriente. Oggi ci sono colpi di arma da fuoco alle finestre, ma i colori della mia stanza ricordano altro, lo spazio comodo, la luminosità, mi trasportano altrove. Fantastico su chi è venuto qui in tempo di pace.
E certe volte sento l’angoscia di provenire da quel paese ricco e bello, che dal 2015, ha offerto più di tutti le sue armi per distruggere vite qui. Ma la gente qui riconosce le differenze, non mi fa pesare le mie origini. Anzi, le mie origini italiane, meridionali e mediterranee, non sono poi così lontane da certi costumi locali. Un mercato di Napoli o Palermo non è meno caotico di un souk qui. E quante parole in comune ci sono nelle nostre lingue. Imparare l’arabo non è poi cosa così impossibile. Ad un orecchio che vuole ascoltare.
Questo mio incontro con l’Altro yemenita ribalta gli stereotipi che giungono in Occidente.
Mi impegno con tutte le risorse che ho, con la mia mente, il cuore e lo spirito, in questo processo di incontro con lo straniero, straniero che abita dentro e fuori di noi, e processo che con profonda umiltà vorrei condividere anche con chi oggi vive in Italia, mia terra d’origine.
Lavorare a lungo all’estero mi hanno reso più cosmopolita, le plurime lingue parlate mi hanno aperto a molteplici mondi ma contemporaneamente mi fanno riscoprire anche la mia italianità. Rileggo la mia cultura in ogni missione in cui lavoro e in ogni progetto estero in cui mi trovo. Analizzo i costumi attuali del mio popolo.
Attraverso queste righe voglio portare nella mia casa italiana la voce di chi qui vive e spera, fatica e lavora per una vita migliore nel margine possibile che la guerra concede. E allo stesso modo vorrei essere accanto a quell’Italia, anch’essa negli ultimi decenni abbrutita da scelte geopolitiche e antropologiche locali prive di cura e sensibilità.