Ci sono ferite che sono schiaffi all’anima, non sono visibili sulla pelle, sono cicatrici profonde scavate in angoli della nostra mente e del nostro corpo.
Quando incontro Lorena mi basta incrociare i suoi occhi che si muovono in ogni direzione senza sosta, lo sguardo basso completamente perso, per vedere la sua ferita. Non servono parole, non le chiedo di raccontare, le spiego che sono lì per lei comunque vada.
Lorena però ha bisogno di lenirla quella ferita e di far iniziare il processo di guarigione. I margini della ferita si avvicineranno, smetterà di sanguinare, la cicatrice arriverà in un secondo momento e il dolore passerà. Decide di prestarmi il suo cuore e racconta, descrive, parla.
Io la guardo, stupita dalla sua forza, dalla sua determinazione e speranza per il futuro. Le sue parole sono uno schiaffo in pieno volto che porta con sé tutte le ingiustizie che ha dovuto subire.
Sognare di scappare
Lorena racconta: “Mi promettono di poter attraversare il confine, finalmente dopo un viaggio interminabile che da El Salvador mi ha condotta qui, in Messico, senza più un soldo, sola con la mia bimba di tre anni. Sembra il segno che aspettavo da mesi, decido di seguirli e mi spiegano che aspetteremo il buio per la traversata.
In un attimo tutto cambia, prendono con forza me e mia figlia, ci caricano su un furgone e ci portano in uno stanzino. Trascorro settimane in questo buco, mentre continuano a chiedermi soldi, ma io non ne ho. Gli spiego che sono sola e che non ho modo di pagarli, gli chiedo di risparmiare almeno mia figlia, di farla attraversare.
Un giorno un uomo entra nella stanza, non chiede, si prende tutto ciò che ho. La mia dignità, la mia sessualità, la mia vita, la mia libertà di scelta, di dire di no, di oppormi. Non chiede, pretende, quello che vuole lo ottiene, in cambio fa attraversare la mia bambina.
Resto rinchiusa ancora alcuni giorni e quasi due mesi dopo scopro di essere incinta. Questo bambino è il suo bambino, per metà ha i geni dell’uomo che mi ha stuprata in quello stanzino.
Penso molto a cosa fare, sono in contatto con mia figlia che ora è in un rifugio per migranti al sicuro. Penso a quello che le racconterò quando potrà capire che cosa è successo. Una parte di me vuole questo bambino, ma l’altra grida. Decido di denunciare, ma per le istituzioni non sono che un’altra vittima senza valore. Racconto la mia storia a persone diverse, mi faccio male pronunciando le stesse parole più volte. Tutto inutile, la burocrazia ha tempi eterni e non sono altro che un nome in una lista infinita di violenza. Che cosa potevo aspettarmi?
Ho paura ad uscire, non dormo, sono sempre all’erta e voglio guadagnare qualcosa per poter raggiungere la mia bambina. La mia piccola mi sta aspettando”.
Muoio dentro ascoltandola, incrocio i suoi occhi lucidi per sentire il suo dolore ancora una volta. Adesso è diventato anche un po’ mio. Questa notte sognerò nuovamente di scappare, mi capita ogni volta che parlo con donne vittime di violenza.
Sono nella quarantunesima città più pericolosa al mondo, dove la violenza è il pane quotidiano. Lorena non è altro che un nome di una lunga lista di donne che sono state violate in questi mesi di missione. Questo luogo non perdona, non c’è legge, non c’è giustizia.