Andrea Re

Andrea Re

Logista MSF

Un’occasione per guarire

Andrea Re

Andrea Re

Logista MSF
Un’occasione per guarire

Ferita. Così l’essere umano, fisicamente e mentalmente, subisce, incassa, affronta i duri colpi della vita. Con ferite piccole, presenti e a volte quasi invisibili. A volte profonde, nella carne come nella mente.

Cicatrice. Così l’essere umano porta a termine il processo di guarigione. Sconfitta la sfida, rimangono i segni di quello scontro a rammentarci che c’è stato, che è stato reale, ma è stato vinto.

Ferite, cicatrici. Indipendentemente dal luogo di nascita, dalla classe sociale, dal culto o dalla famiglia di provenienza, ogni essere umano sperimenta questo processo. Per un ginocchio sbucciato, per una depressione, per la perdita di un caro o per la sconfitta di un ideale. E per ogni ferita, quando essa è curata in tempo, arriva una cicatrice.

“Così è la vita” intitolavano un film Aldo, Giovanni e Giacomo.

La vita, questa meravigliosa avventura che ci è stata concessa, va vissuta. Dall’Italia alla Namibia, dalla Bolivia al Giappone, passando per il Venezuela, la Nigeria, l’Algeria, l’Iraq. Un po’ più su l’Ucraina e un po’ più in là il Myanmar.

L’avventura, la sfida è la stessa: vivere al pieno delle proprie forze, delle proprie possibilità e delle opportunità che il contesto in cui viviamo ci offre.

Accade per Francesca a Roma, la cui passione è la ginnastica e dà tutta sé stessa per migliorarsi ogni settimana; e poi c’è Josephine, che in Repubblica Centrafricana è commerciante ed ogni giorno negozia e vende le sue merci al mercato locale; c’è poi Alfonso, in Brasile, che un mese prima di un colloquio importante studia intensamente; ed ancora c’è Karima, in attesa del suo primo bimbo nel campo profughi di Cox’s Baxar in Bangladesh. E ci sono io, che da qualche anno viaggio per il mondo per passione e per lavoro.

E come in ogni avventura, gli ostacoli si presentano dinnanzi a noi senza preavviso: Alfonso ha un incidente sulle strade di Rio due settimane prima del colloquio e la mamma di Francesca comincia a star male poco prima del saggio di ginnastica della figlia. Karima ha un travaglio prematuro e, nel suo villaggio nei pressi di una zona mineraria, Josephine viene ferita durante una guerriglia tra due gruppi armati non governativi. L’ambulanza, in 15 minuti, è da Alfonso ma da Josephine ambulanze non ce ne sono.

La mamma di Francesca, poco dopo il malore, viene messa sotto trattamento per contrastare il suo male. Da Karima, le cliniche mediche sono poche, piccole e male attrezzate, soprattutto per casi complicati come il suo. Ecco che all’improvviso nelle storie della vita si abbattono le ferite, ed ecco che il nostro istinto di sopravvivenza ci fa lottare, combattere contro i colpi ricevuti.

Ma da soli è difficile rialzarsi, perché servono competenza, rapidità, infrastrutture, compassione e quante altre cose ancora. Ecco allora che l’accesso alle cure medico-sanitarie ci viene in soccorso, il solo mezzo attraverso il quale il processo di guarigione possa compiersi. La ferita trasformarsi in cicatrice.

Seppur inventate, le storie appena raccontate sono verosimili. Accadono ogni giorno, ascoltiamo questi racconti spesso. Ovunque noi viviamo, un po’ più spesso dove le operazioni umanitarie si svolgono.

La mia esperienza non è tanta, ma sufficiente per aver sentito di una ventina di civili uccisi in Repubblica Democratica del Congo a pochi chilometri da dove vivo io. Morte per aver avuto la sfortuna di trovarsi nel loro villaggio, fuori dalla loro casa al momento sbagliato, durante gli scontri armati tra gruppi rivali per la supremazia su una vicina miniera di cobalto.

Alcuni di loro si sarebbero potuti salvare, ma nella foresta i quattro chilometri che li separavano dall’ospedale più vicino erano troppi da raggiungere in quelle condizioni, senza ambulanza, con l’assenza di qualsiasi infrastruttura.

Ed ecco che, assieme alle ferite di chi muore e di chi li perde, ferite non visibili crescono in me, perché forse parte di quelle persone si sarebbero potute salvare se ci fosse stato un sistema medico-sanitario funzionante. Un’occasione, loro, per guarire, non l’hanno avuta.

Ho visto poi in Iraq i campi profughi yazidi, siriani e iracheni dove decine di migliaia di sfollati vivono da anni, cucinando e dormendo per terra, sotto i teli di tende che li proteggono dai 50 gradi dell’estate come dai 5 gradi dell’inverno.

E ho visto piccole cliniche mobili di organizzazioni non governative in quei campi cercare di portare assistenza sanitaria alle persone con disabilità, supporto psicologico a quanti hanno lasciato tutta la loro storia indietro, per non morire a causa di una guerra non loro. E sono le organizzazioni che se ne occupano, perché il sistema sanitario nazionale non ha le capacità per prendere a carico tutti quei bisogni. Ed è così che, in me, parte della ferita di prima comincia a cicatrizzarsi.

Ferite che si combattono insieme

Questo processo mi accade in ogni circostanza, ogni volta che ascolto quanti neonati sono morti in una clinica in mezzo al nulla, ma quanti ne sono stati salvati. Ogni volta che la violenza sessuale viene usata come arma di guerra e ogni volta che a una donna viene concesso il diritto di combattere quel crimine attraverso un percorso di supporto psicologico.

La ferita in me si apre quando ascolto e assisto a queste storie, quando il diritto fondamentale dell’essere umano all’accesso alle cure medico-sanitarie viene negato o, peggio ancora, ignorato. E cicatrizzo un po’, ogni volta che una vita viene salvata, che un’occasione per guarire viene offerta.

Ferite, cicatrici. L’una è legata all’altra. Le ferite, si combattono insieme.