“È la tua prima volta?”
L’uomo seduto accanto a me sull’aereo ha riso quando ho annuito. Quella in Yemen non era la mia prima missione con MSF, ma sarebbe stata la mia prima volta in Medio Oriente, e non ero sicura di cosa aspettarmi.
Stavo andando a lavorare nell’unità di terapia intensiva dell’ospedale traumatologico di Aden, nel sud del paese. Con le sue tre sale operatorie e ottanta letti, dieci dei quali per la terapia intensiva, l’ospedale di Aden si prende cura dei pazienti da dieci anni… e stava per diventare la mia casa per cinque settimane.
Più vicina alla guerra
La situazione geopolitica dello Yemen non è così facile da comprendere per una dottoressa italiana senza una formazione storica o politica. Quando sono arrivata, nel 2020, era il quinto anno di quella che i telegiornali chiamano “guerra civile” ma che vista più da vicino somiglia molto a un conflitto internazionale. Oggi, 22 marzo 2021, si celebra tristemente il 6° anniversario del conflitto.
Aden si è ritrovata brutalmente coinvolta nel 2015, come mi hanno spiegato i miei colleghi durante una cena improvvisata nella sala dei medici.
Una volta stesa una tovaglia di plastica sul pavimento, il Dottor Omar ha disposto il cibo come se fossimo in un ristorante a quattro stelle, mentre descriveva cos’aveva significato essere in servizio durante la battaglia di Aden.
In un giorno abbiamo ricevuto duecento pazienti” ha detto sorridendo. “Ho lavorato senza sosta per 48 ore. Ero stanco dopo”.
Mentre lo osservavo, nel silenzio imbarazzato che le sue parole avevano creato, mi sono chiesta come i miei colleghi avessero conservato tanta passione per il proprio lavoro. Speravo che sarebbe stato lo stesso per me, ma non potevo esserne certa.
Di una cosa, però, ero sicura: l’alta qualità delle cure all’ospedale di Aden. L’unità di terapia intensiva viene gestita talmente bene dall’équipe yemenita che un paio di volte mi sono chiesta se il mio contributo, in quanto membro temporaneo dello staff internazionale, fosse davvero necessario.
La granata
Aden è stata in gran parte risparmiata dalla brutale battaglia, ma la povertà crescente e il facile accesso alle armi hanno reso la violenza parte della quotidianità della popolazione locale.
Una notte, a una settimana dal mio arrivo nell’ospedale, sono stata svegliata alle tre del mattino da una telefonata. Era il medico del pronto soccorso che chiedeva aiuto: erano arrivati quattro pazienti nello stesso momento, dalla stessa sparatoria.
Il più urgente era un ragazzo ventenne con una ferita al torace che non riusciva a respirare.
Mentre lo intubavo, lo sguardo mi è caduto su qualcosa di ingombrante e dall’aria scomoda nella tasca dei suoi pantaloni. Non appena ho completato il processo di intubazione ho allungato la mano per spostare l’oggetto.
Mi si è ghiacciato il sangue nelle vene: in mano avevo una granata.
Un collega yemenita me l’ha presa delicatamente dalla mano e l’ha portata dove tutte le armi devono stare: fuori dal nostro ospedale.
Una bestia silenziosa
Presto, la mia attenzione è stata catturata da altro: alcuni dei pazienti che stavamo accogliendo all’ospedale erano malnutriti, sia bambini che giovani.
A volte lo Yemen viene descritto come un paese sull’orlo della fame. Ad Aden, i casi di malnutrizione che abbiamo visto non erano così diffusi, ma i miei colleghi mi hanno spiegato che la fetta di popolazione che sta soffrendo in povertà è in continua crescita.
La malnutrizione è una bestia subdola che può ucciderti proprio come una granata, senza emettere suono.
Nei pazienti con ferite traumatiche la malnutrizione rende le cose più complicate. Un corpo ferito ha bisogno di più sostanze nutritive di uno sano: i tessuti hanno bisogno di energia per guarire e ricostruire ciò che è stato distrutto.
In media, un paziente con una ferita da trauma necessita del 30% in più di calorie al giorno. Un corpo malnutrito ha meno riserve da utilizzare per la ricostruzione, perciò il processo di guarigione può impiegare più tempo o non compiersi mai.
Per i bambini il quadro si fa ancora più complesso, in quanto i loro corpi devono guarire e crescere al tempo stesso. Questo può essere semplicemente troppo per un corpo che sta già funzionando a metà potenza.
Fariha
Fariha – una bambina sorridente di cinque anni, ricoverata in seguito a un incidente stradale – mi preoccupava più di ogni altro paziente.
L’incidente le aveva causato una grave lesione al fegato. Quando è stata ricoverata pesava 13 kg – già molto poco per la sua età. Due mesi dopo il suo peso era sceso a 9 kg e sembrava non volersi fermare. Rimaneva perlopiù a letto, lottando per trovare la forza di mangiare.
Le condizioni della bambina erano state monitorate con attenzione, come avveniva con tutti gli altri pazienti, ma Fariha era gravemente malnutrita dall’inizio e i protocolli di cura che funzionavano perfettamente sui pazienti in forma fisica normale non si stavano rivelando efficaci su di lei.
Ogni aiuto possibile
Osservando il suo peso calare, mi sono ritrovata sull’orlo del panico e ho deciso di chiedere ogni aiuto possibile.
Ho allertato tutto l’ospedale sulle condizioni della bambina, ho parlato con il nostro direttore e con il nostro psicologo, e ho scritto un’email chiedendo consiglio al mio referente tecnico (un consulente specializzato in medicina critica) all’ufficio MSF di Parigi.
Ho preparato un piano nutrizionale da seguire con attenzione. Lo abbiamo cambiato decine di volte per adattarlo alle condizioni di Fariha. Nel frattempo, tutto il team le dava da mangiare e giocava con lei, spesso rimanendo anche dopo la fine del proprio turno. Gli infermieri hanno preparato i suoi piatti preferiti nella cucina dell’ospedale un paio di volte, e tutti abbiamo contributo costantemente a supportare sua madre.
Un miracolo e un applauso
Dopo tre settimane di tentativi, fallimenti e aggiustamenti, il peso di Fariha ha ricominciato a crescere. È stato come assistere a un miracolo: il suo corpo stava rispondendo.
È stata la prima volta che ho partecipato alla cura di un bambino malnutrito, un avvenimento raro per un’anestesista. Ho provato una meraviglia che non sentivo dai tempi dell’università.
Ma non si è trattato di un mio successo personale: tutti i membri della squadra hanno dimostrato a loro stessi che con un grande sforzo, un approccio multidisciplinare e dei nuovi protocolli erano pronti a curare la malnutrizione nei pazienti con ferite traumatiche.
Fariha è stata dimessa – pochi giorni prima che io partissi dallo Yemen – con un grande applauso di tutto lo staff.