La sveglia suona alle 7.00. Per sentirmi meno lontana da casa mi preparo un caffè.
Lo bevo da sola e inizio a pensare a quello che mi attende durante la giornata ma i miei pensieri sono interrotti dai ricordi della notte appena passata, quando mi hanno chiamato per un paio di pazienti peggiorati, di cui uno che poi non ce l’ha fatta. Cerco di ricordarne il viso, e penso se avessimo potuto fare altro. Fa già un caldo atroce.
Si parte alle 7.45, pochi minuti di strada ci separano dal compound di MSF. I nostri vicini vivono in capanne di paglia, i bambini ci salutano sempre con la stessa curiosità e allegria, giorno dopo giorno.
Faccio il giro in terapia intensiva, mi piace imparare qualcosa sui casi chirurgici, anche se adulti.
La maggior parte sono incidenti stradali, le ferite d’arma da fuoco stanno diminuendo negli ultimi mesi, ma quando capita di vedere questi ragazzi con ferite di guerra inizio a ricordarmi cosa c’è intorno a me. Poi ci sono i bambini che giocando hanno pestato una mina. E tra questi ci sono quelli che perdono una mano, un piede…mi chiedo che vita faranno, una volta cresciuti, in un posto del genere?
E poi ci sono le donne incinta che arrivano con le complicanze più gravi perché non hanno potuto accedere a nessun controllo medico durante la gravidanza.
Alle 8.30 mi sposto in pediatria, sette minuti d’auto. Intorno a me c’è solo miseria, spazzatura, uomini- a volte ancora bambini- armati, edifici distrutti, case fatiscenti, cani malandati che cercano da mangiare in mezzo alle montagne di plastica. Mi immagino di entrare in una di quelle abitazioni. Come vivere in un clima del genere senza elettricità e senza acqua? Eppure loro ci riescono.
Poco prima di girare per l’ospedale, una sessantina di brandine all’aria aperta ospita altrettanti ragazzi/uomini, alcuni ancora dormono, alcuni mi guardano passare con occhi bianchissimi e già stanchi. Noto anche due bagni lì vicino.
Sono rifugiati dalla Somalia e dall’Etiopia, arrivano in barca, sperando di raggiungere l’Arabia Saudita. Li aspetta un lungo viaggio, a volte a piedi, fino ad Aden e poi chissà… ogni giorno cerco di riconoscerne alcuni. Una volta uno di questi ragazzi è rimasto gravemente ferito ed è stato operato da MSF. Era da solo, non capiva né l’arabo né l’inglese e non conosceva nessuno a Mokha. Puoi immaginarlo? Per fortuna D.* parlava la stessa lingua e siamo riusciti a metterlo in contatto con la famiglia.
Mi auguro, mentre scrivo queste righe, che sia arrivato a destinazione, che abbia raggiunto i suoi amici sano e salvo e che il resto del suo viaggio sia stato più ‘fortunato’. La fortuna è un privilegio di pochissimi da questa parte del mondo.
L’edificio che ospita la pediatria si affaccia direttamente sul Mar Rosso. Guardo fuori dalla finestra e fino all’orizzonte c’è solo lui, con tutte le sue meravigliose e inesplorate sfumature di blu. Dopo questa esperienza il mare avrà un significato diverso per me.
Facciamo il giro in reparto con medici e infermieri. Ci sono giorni buoni, quando non ci sono tanti casi complicati, o quando i pazienti migliorano e possono essere dimessi. Le madri le abbraccio tutte e molte mi riempiono di baci, mi ringraziano. Vorrei che non lo facessero. La maggior parte delle donne qui non sa leggere, scrivere, non sa quanti anni ha. Come fanno a guardare avanti? Come fanno a sperare in un futuro diverso per le loro figlie? Cosa posso fare per loro?
E poi ci sono i giorni brutti, quando capitano una, due rianimazioni e, a volte, un equivalente numero di morti. E abbraccio anche queste madri, pur non potendo capire appieno cosa vuol dire perdere un figlio. Guardo il viso del bimbo mentre lo prepariamo ad essere portato via, tanti li ho dimenticati, ma alcuni sono ancora scolpiti nella mia mente. Se solo avessero avuto i mezzi e la conoscenza per arrivare in ospedale un paio di giorni prima, se solo avessero avuto la possibilità di dare loro da mangiare abbastanza, di vaccinarli, o se li avessero fatti nascere in ospedale e non a casa…
Abbiamo finito il giro e dobbiamo spiegare alla famiglia di un bambino che il motivo per cui si ammala sempre, respira male e non prende peso è una cardiopatia congenita e che l’unica cura risolutiva è la chirurgia. In un paese in guerra da anni non esiste posto che faccia operazioni del genere. Che speranza possiamo dargli? Nessuna. L’unica opzione è andare in Egitto o in Arabia Saudita, ma la maggior parte delle famiglie non raccoglierà mai abbastanza soldi per poter partire. Nello stesso momento in cui spieghiamo loro tutto questo, in Europa stanno correggendo quello stesso difetto non appena il neonato nasce, gratuitamente, e quel bambino avrà una vita pressoché normale.
Nel pomeriggio faccio un salto in neonatologia. “È stata ricoverata una neonata con peso inferiore a 1 kg, che facciamo?”, mi chiedono le ostetriche. Per un neonato così prematuro non c’è nessuna speranza in un contesto del genere, l’unica cosa che possiamo fare è fare in modo che non provi dolore e sostenere la madre come possiamo. In Italia sarebbe stata ricoverata per 4-5 mesi, sarebbe sopravvissuta e una squadra di decine e decine di specialisti avrebbe lavorato per lei.
Torno in pediatria, il reparto è pieno ma in attesa ci sono tre, quattro casi che hanno bisogno di ricovero. Tutti malnutriti, due disidratati, due che hanno serio bisogno di ossigeno… ‘’Che facciamo dottoressa Gulia? ’’. Faccio un giro in reparto, dimetto chi posso dimettere con un po’ di anticipo, sperando vada tutto bene. Da quando si è sparsa la voce che MSF ha aperto un reparto di pediatria i casi stanno aumentando, spesso arrivano anche da zone molto remote e siamo costretti a inserire letti extra o mettere due bambini per letto.
La sera, a mezzanotte,ricevo una chiamata. Il paziente al letto 4 è morto. Faccio mente locale sul caso e ne discuto brevemente con il medico di turno.
Mi dispiace habibi, mamma ti abbraccio anche se non sono lì, spero tu possa trovare la forza di andare avanti per te e per gli altri tuoi figli, che certamente saranno in tanti ad aspettarti a casa. Dove cercarla questa forza io proprio non saprei. E poi, ti sarà concesso il tempo di viverlo il tuo lutto?
Ripenso a quelle rare volte in cui ho visto morire un bambino in un ospedale in Italia e a come veniva vissuta la morte dalla famiglia, dalla comunità e da tutto lo staff. Articoli sul giornale locale la mattina dopo per raccontare quanto quella vita fosse straordinaria e quanto tragica ne sia stata la morte.
Perché la vita di questi bambini dovrebbe essere meno straordinaria? Perché nessuno ne parla il giorno dopo? Perché una madre yemenita dovrebbe accettare la perdita di un figlio? Perché il suo dolore dovrebbe essere diverso da quello di qualsiasi altra madre?
Ore 4.30: ormai ho imparato a memoria i suoni della moschea che mi svegliano. Mi immagino i fedeli riuniti a pregare, ogni notte. Per quale mondo pregheranno?
Provo a dormire ancora, consapevole che tanti piccoli pezzi di me rimarranno qua.